… … Nel caso esemplare degli Stati Uniti, la democrazia è diventata sinonimo di ingorgo decisionale, bloccato dai reciproci sforzi delle parti per ottenere dei punti fino a rischiare il default per due volte in due anni. Per non dire degli abusi con la costruzione dei collegi elettorali (il gerrymandering, un’antica battaglia dell’Economist) in modo da conservare i seggi sempre agli stessi eletti. Col risultato di polarizzare le posizioni degli elettori e incoraggiare gli estremismi, e di aumentare la disillusione e la critica dei cittadini, mentre cresce il potere economico e delle lobby sulla politica. Il tutto sia all’interno che all’estero dà una crescente impressione che la democrazia sia una cosa in vendita a chi ha i soldi per comprarla. Non vanno meglio le cose per l’altra grande federazione di stati democratici, l’Unione Europea. L’introduzione dell’euro è stata presa da tecnocrati, senza consultazione dei cittadini (negli unici due paesi che hanno tenuto dei referendum, Danimarca e Svezia, hanno vinto i no), che quando sono stati sentiti sul trattato di Lisbona si sono detti soprattutto contrari. Il Parlamento europeo è insieme ignorato e disprezzato. I populismi e gli estremismi locali, che l’UE voleva combattere, ne sono invece rafforzati ogni anno. E “nei giorni più neri della crisi dell’euro, le euro-élites hanno costretto Italia e Grecia a sostituire leader eletti democraticamente con tecnocrati”. Cosa è cambiato? Attaccati da tre lati. L’espressione maggiore della democrazia negli ultimi due secoli è stata la forma delle nazioni e dei parlamenti nazionali. Ma qualcosa è cambiato, e questo sistema oggi è attaccato “da sopra, sotto e dentro”. Sopra. La globalizzazione ha reso più deboli e meno indipendenti le politiche nazionali: molto potere è stato consegnato a istituzioni sopranazionali e mercati, e i politici sono oggi meno in grado di mantenere le molte promesse che continuano a fare su temi che non dipendono da loro. Sotto. Comunità locali, regioni autonomiste, enti e poteri minori come ONG e lobbisti, riducono a loro volta i poteri politici nazionali. E Internet ha consegnato a gruppi ancora più piccoli e agli stessi individui la possibilità di organizzarsi, protestare e avanzare più visibilmente e insistentemente le loro richieste. In società in cui i cittadini votano ogni sera per eliminare i concorrenti di un programma televisivo, e ogni mattina firmano petizioni online, il processo elettorale parlamentare suona anacronistico e rigido. Per un parlamentare britannico citato dall’Economist, le democrazie rischiano di fare la fine dei negozi di dischi ai tempi di Spotify e iTunes. Dentro. Ma l’assedio maggiore le democrazie lo stanno subendo dai propri cittadini, dagli elettori. La pratica poco lungimirante della politica di creare grandi quantità di debito per mantenere le promesse di oggi, senza costruire investimenti per saldare quel debito domani, si è rivelata nella sua sventatezza in questi anni di crisi finanziaria. Ma adesso è diventato difficilissimo per i politici convincere i cittadini che le promesse non si possono mantenere più e che bisogna pensare nuove austerità economiche. Ancora di più in paesi in cui la popolazione invecchia e le proteste sono più difficili da ignorare rispetto a quelle, più tradizionali, dei giovani. E questo aumenta le difficoltà di pensare al domani sacrificando sull’oggi. Per queste ragioni di incapacità di risultati, e non solo, il cinismo e il distacco verso la politica è in grande aumento in tutte le democrazie. Nel Regno Unito, gli iscritti ai partiti sono passati all’1% dei cittadini, dal 20% che erano nel 1950 (anche così si spiega la Brexit). Le percentuali dei votanti in 49 democrazie oggetto di uno studio sono scese complessivamente del 10 per cento negli ultimi trent’anni. E se una volta questo distacco si sarebbe tradotto solo in distacco, o conversazioni risentite al bar, oggi diventa parte della politica e del suo blocco, spiega l’Economist citando i casi del “partito satirico” che ha vinto le elezioni a Reykjavik e in Italia il successo del movimento 5 stelle di Beppe Grillo. Il risultato simultaneo è che i cittadini vogliono dai loro governi sempre di più, al crescere dei problemi, ma insieme li disprezzano sempre di più, togliendo loro legittimità ed efficacia. Cosa fare: con le nuove democrazie? Il processo di costruzione di nuove democrazie nei paesi emergenti non è sconfitto e non è impossibile, secondo l’Economist. È già successo in altri momenti della Storia, e d’altra parte la democrazia non è proprietà dell’Occidente: ma ci vogliono pazienza, tempo, e assiduità. James Madison e John Stuart Mill ritenevano che la democrazia fosse un meccanismo potente ma imperfetto: che deve essere costruito con attenzione, per sfruttare la creatività degli uomini ma anche per sorvegliare le loro perversioni, e tenuto costantemente in ordine e al lavoro, oliato, aggiustato e assestato. E con le nuove democrazie lo sbaglio commesso troppo spesso è stato di investire troppo sulle elezioni e troppo poco sugli altri tratti essenziali della democrazia. Soprattutto guardandosi dalla “dittatura della maggioranza”, l’idea che la vittoria elettorale dia ai vincitori il diritto di fare quello che vogliono. Le democrazie più riuscite sono quelle che hanno saputo tenere a bada questa tentazione e costruire sistemi di garanzie e tutele per evitarla, a cominciare dalle Costituzioni. Gli esempi più riusciti sono India e Brasile, mentre il primo sintomo del rischio di fallimento di una democrazia è il tentativo di chi la governa di darsi maggiori poteri…
(continua)
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