Politica: per forza in tour. Meloni arranca a Roma e va bene all’estero. Il giro del mondo di Meloni per non fare i conti con lo stallo del suo Governo…

Dal Pnrr alla riforma della giustizia, passando per l’autonomia differenziata e la flat tax, l’esecutivo è bloccato in un pantano politico. I dossier non procedono, i malumori nella maggioranza aumentano e la Presidente del Consiglio sta più all’estero che a Palazzo Chigi. Ribaltando le previsioni, il governo preda dei suoi clan fa disastri in casa, a cominciare dalla giustizia. Con Zaki, dossier Africa e atlantismo dimostra un’insospettabile affidabilità. Evidentemente la premier è più libera a Tunisi che a Colle Oppio. Davvero è inspiegabile il pasticcio nel quale Giorgia Meloni si è infilata sulla giustizia, amplificato da una postura particolarmente nervosa: dalla nota informale di Palazzo Chigi, in stile berlusconiano, con la volontà di fare di ogni scandalo un fascio, alla sconfessione piuttosto ruvida di Carlo Nordio sul concorso esterno, in concomitanza con le celebrazioni di Paolo Borsellino, alla sintonia invece con Nordio, a celebrazioni finite, sull’abuso di ufficio che rischia di andare a sbattere contro il Quirinale o alla prima sentenza della Corte Costituzionale. E non sarebbe una medaglia per un giurista così raffinato. Lo spettacolo rappresenta un sorprendente rovesciamento delle previsioni pre-voto, quando si pensava che il punto debole del nascituro governo sarebbe stata la politica estera, tra un’intemerata del Cavaliere su Vladimir Putin e la baldanza del Matteo Salvini pacifista e francescano nella chiacchiera e putiniano nella sostanza. E invece, paradossalmente, il fronte esterno è quello che funziona meglio, l’interno quello che funziona peggio. E non perché ci siano particolari grane con gli alleati: si è incartata da sola, col suo nucleo stretto. C’è poco da dire sulla tenuta del vincolo esterno, nei termini di fedeltà atlantica. E non era affatto scontato per una leader che definiva nel suo libro la Russia di Putin un baluardo della “difesa della cristianità”, frase rivelatrice di una sedimentazione profonda nel suo partito. E c’è poco da dire anche sul modo corretto in cui è stato posto il tema di una rinnovata presenza nel Mediterraneo, dal successo su Patrick Zaki, all’accordo siglato con la Tunisia, sia pur con tutti i limiti: non è un accordo sui flussi (il vero limite), ma sulla stabilizzazione di quel paese, come ha spiegato Marco Minniti, però per la prima volta c’è un dato politico nuovo, sottolineato dalla firma di Ursula Von der Leyen (punto di riferimento, anche per progressisti, di un diverso assetto europeo rispetto a quello che ha in mente Manfred Weber). E cioè che una parte dei fondi europei non sono subordinati al negoziato tra la Tunisia e l’Fmi, le cui condizioni rigide – in termini economici, non di diritti – sono osteggiate dai sindacati e dai lavoratori tunisini: si tratta di una prima, parziale, assunzione di responsabilità europea nel muoversi come attore politico e non come una banca. Ed è questo approccio che ha incassato il plauso, nel corso della riunione con i suoi omologhi europei, del ministro dell’Interno spagnolo (socialista). Dentro questo rovesciamento (delle previsioni), ce n’è un altro, che lo spiega e, al tempo stesso, spiega il cuore del problema interno: il rapporto della premier col suo background politico e culturale. Insomma, Giorgia Meloni che va in Africa e capisce che l’unica via è portarci l’Europa è la stessa che proponeva una separazione dall’Africa, da realizzare attraverso un improbabile blocco navale, indicata come una minaccia, con annesso pregiudizio verso i musulmani (e, appunto, annesse lodi verso i baluardi della cristianità che destabilizzano l’Africa con la Wagner). Per quanto sia tutto parziale, forse tardivo (con 80mila sbarchi la situazione è ormai fuori controllo) è un approccio che rivela, nell’affrancarsi dall’impostazione pregressa, una certa libertà di azione. E allora: dove la premier opera una discontinuità, funziona. Dove, per limiti, condizionamenti, convinzioni, legami risalenti non è in grado di realizzarla, è un accumulo di errori e passi falsi. E la giustizia rappresenta proprio l’epifenomeno del vizio di origine del governo: la logica della tribù, cementata dalla sindrome del polo escluso e dal revanchismo, che ha portato a premiare la fedeltà più che la competenza (e il coinvolgimento di altri mondi). E ha portato a un assetto in cui il nucleo forte è tutto ideologico familiare. Al fondo c’è l’idea malsana che è più facile gestire il tutto tra amici, parenti e padrini politici, che a loro volta piazzano un’altra amica al Turismo (Daniela Santanchè). O con un giurista considerato gestibile alla Giustizia, finché poi non arriva lo scivolone che complica il tutto. Non è il progetto che definisce la squadra, ma il legame quasi fisico del “noi siamo noi”, quasi a prescindere: quando serve, si inneggia a Borsellino, all’occorrenza si fa la guerra alle procure. Legame che implica una difesa a testuggine e impedisce il sacrificio degli accoliti rendendo la premier schiava del meccanismo. Lei poi se lo racconta come un elemento di forza, secondo una certa narrazione muscolare del “se cediamo su uno, dimostriamo vulnerabilità” e “guai a chi molla”. In realtà la rigidità è assenza di libertà di manovra. All’estero si può cambiare idea, a Colle Oppio no, e alla fine non si capisce neanche come Giorgia Meloni veramente la pensi sull’abuso d’ufficio… La mitica riforma della giustizia, quella con la separazione delle carriere, è finita in un cassetto di via Arenula da dove chissà se e chissà quando Carlo Nordio la ritirerà fuori. Per ora non c’è niente. Il Guardasigilli è stato sbugiardato anche su un’ipotizzata riforma del reato di concorso esterno in associazione mafiosa («Una cazzata», l’ha definita il post-missino Gianni Alemanno): il risultato finale è che Nordio, un ministro che avrebbe voluto fare una riforma garantista, è ormai estraneo a questo Governo. La grande riforma fiscale, quella con la flat tax, non esiste, esistono solo gli ammiccamenti di Matteo Salvini a non pagare le tasse, tanto poi ci sarà qualche rottamazione delle cartelle mentre intanto si produce il fenomeno per cui molti cittadini aderiscono ai concordati fiscali e poi non pagano le rate confidando in un successivo condono. Sul Pnrr, dopo le presunte assicurazioni di Raffaele Fitto siamo fermi alla seconda rata, in ritardo rispetto a tutti gli altri paesi europei avevamo, fino a qualche giorno fa la terza rata bloccata (sarebbe dovuta arrivare a marzo); e la quarta, era prevista per fine giugno, slitta. Il motivo di questo ritardo si è finalmente chiarito: il governo ha deciso di modificare degli obiettivi, di non rispettare alcune scadenze, di non fornire dati trasparenti e chiari al Parlamento. E alla fine la terza rata arriverà decurtata di 500 milioni, in quanto i previsti 7000 posti letto per gli universitari, finiscono in coda al piano nel 2026, e si pensa di recuperarli nella quarta rata che verrà, staremo a vedere… Il progetto di Roberto Calderoli sulla autonomia differenziata è moribondo soprattutto dopo l’uscita dalla commissione Cassese di giuristi come Giuliano Amato, Franco Bassanini, Franco Gallo e Alessandro Pajno. Della riforma presidenziale non si parla più, tutto rinviato. Sull’immigrazione il Governo sta facendo entrare tutti rovesciando la logica dei porti chiusi con cui vinse le elezioni anche perché si rende conto di un semplice dato di realtà, cioè che la forza lavoro degli immigrati è essenziale per far funzionare l’economia italiana. Sulla disoccupazione ha abolito il reddito di cittadinanza ma senza una vera riforma del mercato del lavoro. Su sanità, scuola, università e ricerca zero assoluto. I promessi finanziamenti per l’Emilia-Romagna per fronteggiare l’emergenza alluvione non arrivano. Alla Rai meloniana c’è un problema al giorno. E lasciamo qui stare le vicende nere che riguardano Ignazio La Russa, Daniela Santanchè e Andrea Del Mastro, tre storie diverse che è stato il Governo ad accomunare quando è stata fatta filtrare una nota anonima di Palazzo Chigi, poi rivendicata da Meloni, nella quale si accusava la magistratura di «fare opposizione», in sostanza di complottare contro il Governo; ed è dovuto poi intervenire il presidente della Repubblica per riportare un minimo di ordine. Poi ci sono alcune stramberie vere e proprie, come la gitarella Roma-Pompei con i cronisti blindati in una carrozza con il redivivo Mario Sechi (ma non era andato via?) a disciplinare il traffico. La sensazione non è che le cose siano in gran parte sbagliate – anche – ma che non funzionino proprio. Ci sono ministri desaparecidos e altri che fanno confusione e altri ancora che rinviano ciò che dovrebbero fare. C’è qualcosa che sta ingrippando i meccanismi dei ministeri-chiave e persino di Palazzo Chigi, e forse questo è una ragione, magari psicologica, che spiega i continui viaggi all’estero di Giorgia Meloni: Tunisia, Polonia, Bruxelles ancora Tunisia. Nessuno nega l’importanza delle relazioni internazionali e però è un fatto che la Presidente del Consiglio stia molto più tempo fuori che dentro Palazzo Chigi. Vero, i decreti di questo governo sono parecchi. Eppure, il fatto che molte, troppe cose stiano girando a vuoto non è effetto del caldo micidiale che toglie la voglia di fare. Ma assomiglia tanto a un problema politico e di quelli seri…

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