Politica: Povera Italia! Era un Paese già in grande difficoltà anche prima della pandemia… E, oggi, le proiezioni ci condannano ad un sempre più veloce declino…

…parte terza

I due post precedenti a questo, stimolano la riflessione sull’esistenza di un’alternativa al Capitalismo: c’è quindi all’orizzonte una proposta di ripensamento del sistema?

Il sistema capitalistico come fino ad ora l’abbiamo conosciuto mostra indiscutibili segni di fallimento. Il presente post parte da questo assunto, volutamente provocatorio, ma non credo così lontano dalla realtà. Si tenterà di far intravvedere possibili scenari alternativi, perché, a dispetto di quanto hanno voluto e vogliono strenuamente farci credere, il capitalismo non è il sistema, ma un sistema economico come altri ve ne sono stati in passato, con i suoi punti di forza e di debolezza… Orbene, quali e quanti sono stati i fallimenti del capitalismo negli ultimi 40 anni? Il primo fallimento si annida nel deterioramento dell’uguaglianza sociale, nel totale disinteresse verso i diritti umani e lo sviluppo culturale, morale e sociale della persona. Con una visione improntata esclusivamente all’accumulo di ricchezze e beni e del denaro come unico strumento per misurare il valore (denaro e valore sovente nell’immaginario capitalistico divengono indistinguibili), il sistema capitalistico si disinteressa totalmente delle arti, della cura estetica delle città e dei luoghi e di tutte quelle discipline, in passato amate e coltivate dagli antichi, ora bollate come passatempo per oziosi. La conseguenza è una popolazione più incolta e meno attenta ai bisogni del prossimo. Da cui discende il secondo, grande, fallimento del capitalismo, ovvero la creazione di una massa di persone egocentriche, che ha come conseguenza l’accrescimento indiscriminato delle disparità economiche. La competizione esasperata, unita ad una “bestialità” derivante dalla poca cura dedicata all’accrescimento dello spirito, porta a rendere le persone degli animali feroci, con aumento degli episodi di violenza sia fisica che verbale. Il terzo fallimento del capitalismo è la globalizzazione, che, come già accennato in altri post, da potenziale strumento di eliminazione delle diseguaglianze è divenuto, invece, canale di accrescimento della povertà e del sorgere di nuove forme di schiavitù. Infine, il denaro da semplice mezzo di scambio di beni e servizi è divenuto il fine ultimo dell’esistenza per la maggior parte degli individui, accartocciandosi nella più grande fiction economica mai vista: l’unico bene che non ha un valore in sé diviene l’unico bene desiderato. Capita sovente nell’immaginario neoliberale confondere i due concetti di denaro e valore, rendendoli pressoché indistinguibili. Già Aristotele aveva messo in guardia i suoi contemporanei dai rischi derivanti dall’eccessivo attaccamento al denaro e al profitto. Ad oggi, ci siamo ridotti ad un sistema che sottrae denaro all’economia reale, vero teatro di scambio di beni e servizi, per andare ad essere inserito nelle attività finanziarie, spesso neppur esistendo a livello materiale. La prima giusta obiezione che si potrebbe muovere ai vari assunti di cui sopra è che i sistemi socialisti e comunisti non hanno di certo portato maggior benessere agli Stati che li hanno adottati, anzi. Spesso le popolazioni sono state gettate in condizioni di povertà estrema, oltre che di assoggettamento a regimi dittatoriali. I sistemi socialisti hanno fallito nel ridurre l’ideologia marxista, ancora oggi valida nei principi, ad un mero controllo centralizzato da parte dello Stato dei mezzi di produzione. Si è visto come una simile operazione non potesse reggere, producendo il mercato delle esternalità non assorbibili dal libero scambio. Oggi è sempre più impensabile, oltre che anacronistico credere che l’alternativa al capitalismo possa essere il socialismo di matrice marxiana. Interessante, però, al riguardo è la lettura che dà del pensiero marxiano Alain Badiou. Il filosofo francese sostiene, infatti, che i concetti di Marx sono molto più attuali adesso che ai suoi tempi. In particolare, il mercato mondiale e la disoccupazione di massa sarebbero molto più reali adesso che nel 1850. E in effetti guardando ai 2 miliardi di persone senza lavoro che non sono né salariati, né proprietari né consumatori e guardando, altresì, alla progressiva concentrazione della ricchezza nelle mani di una sempre più stretta oligarchia, il sospetto che l’attualità delle opere dell’intellettuale tedesco sia fondata sorge. Infatti, il nome di Marx e del “Il Capitale” non va sussurrato con timore, quasi a riecheggiare tetri scenari di razionamenti russi, gulag e lavori forzati nelle inospitali terre siberiani che nulla hanno a che fare con il suo pensiero. Va, invece, capito, riletto, ripreso in quei concetti che, come sostenuto da Badiou, sono più che mai attuali alla luce del capitalismo selvaggio da cui siamo affetti come società mondiale. Non c’è solo il filosofo Badiou, a rivalutare il pensiero marxiano, ma anche anche economisti di fama mondiale da Stiglitz a Piketty. Socialismo. Necessario e impossibile? Il problema delle disuguaglianze e il futuro del capitalismo. Una rilettura di Thomas Piketty (“Il capitale nel XXI secolo” e “Capitale e ideologia”) e Joseph E. Stiglitz (“La globalizzazione che funziona” e “Il prezzo della disuguaglianza” “diseguaglianza e crescita economica”). A ben guardare, per un vero cambiamento sembrerebbero mancare i protagonisti. Vi sono stati nel tempo alcuni movimenti, giovani e freschi, come Occupy Wall Street, le Primavere Arabe e la protesta degli ombrelli di Hong Kong, ma molto spesso si è trattato di episodi, di gruppi sparuti e formati da persone di buona volontà che non hanno saputo o potuto intercettare una fetta più ampia di popolazione. A ciò si aggiunga all’orizzonte una classe politica asservita, con poche idee, molti proclami e con talune, sempre più frequenti, derive fasciste e totalitarie. Che fare, dunque, abbandonarsi a questa deriva e attendere che populismi, movimenti parafascisti si insinuino nuovamente come ai tempi di Mussolini e Hitler, nell’insoddisfazione delle persone, nella rabbia e nell’incultura? Analizzando il caso italiano, da noi il Movimento 5 Stelle ricorda in alcuni proclami movimenti parafascisti e siede in Parlamento, per non citare Lega e Case Pound che ogni tanto risorgono… Talvolta l’andamento sembrerebbe quello, la storia ha la triste e preoccupante tendenza a ripetersi, come posto in evidenza da Hegel e da Vico prima di lui, senza che l’essere umano sappia imparare ed evitare di commettere gli stessi errori. Ma riprendiamo l’assunto iniziale, il capitalismo come l’abbiamo conosciuto ha fallito. Si, ma non sempre e non dovunque. In quegli Stati che hanno saputo correggere le strutturali imperfezioni del mercato, il neoliberismo ha portato rinnovato benessere alle persone, accrescimento del livello culturale e riduzione progressiva delle diseguaglianze. Non solo gli Stati scandinavi e la lontana Islanda, ma anche il territorio del Benelux, la Spagna prima dello scoppio della bolla immobiliare, la stessa Germania sebbene ci sia lì un discorso di egemonia politica in Europa che andrebbe affrontato. Il minimo comune denominatore dell’economie di queste nazioni è uno Stato che interviene con politiche sociali volte a riequilibrare le naturali diseguaglianze generate dal libero scambio. Così l’attenzione esclusiva al profitto e all’appropriazione del lavoro e dell’uomo come “merce”, si argina con interventi “dall’alto” volti a ridurre le ore di lavoro, ad incentivare l’assunzione delle donne e la possibilità di mettere al mondo figli, di combattere la disoccupazione di lungo periodo attraverso reali sistemi di reinserimento immediato nel mercato del lavoro. Utopia si dirà. Cose da Paesi evoluti, numericamente inferiori e soprattutto con un tasso di corruzione molto al di sotto di un Paese come l’Italia. Ci sarebbe poi il discorso antropologico e così via. Tutte obiezioni sacrosante, ma anche autoassolventi. L’Italia post costituente aveva delineato un sistema di regole e principi, nato dalla convergenza di tutte le correnti politiche uscite dalla guerra, molto simile alla social-democrazia degli Stati scandinavi e, per certi versi, anche più avanguardista. La visione economica e sociale che vien fuori dalla Costituzione italiana è tutto un gioco di equilibri i tra quella ricerca dell’eguaglianza sostanziale dei cittadini sancita dall’art. 3 e l’art.41 sulla libertà dell’iniziativa economica privata (nota bene che non deve mai svolgersi in contrasto con l’utilità sociale). Gioco di equilibri che è stato espresso in maniera magistrale da politiche attive in favore del lavoro, del welfare e dell’istruzione. Non altrettanto ben espresso da riforme recenti come il Jobs Act, espressione chiara degli intenti neoliberisti del Governo che l’aveva emanato. La Costituzione italiana si badi bene non è anacronistica nei suoi principi fondanti. Nasce, come detto, dalla più grande convergenza di consenso che si sia mai vista in Italia. Sorge sulle ceneri di disastri, fallimenti, morti e vergogne indelebili. È ragionata e sofferta nei suoi principi, è ben scritta, è attuale ed universale. Non è temporanea e di passaggio come Governi e leggi o politici più o meno capaci. È la vera alternativa che abbiamo sotto gli occhi e deve essere riletta e ripensata nei suoi principi cardine, perché può fungere da vero collante. Va interpretata attraverso leggi che sappiano attualizzarne i principi, senza stravolgerli. Era quasi scontato che dovesse accadere. Se il capitalismo selvaggio ha fallito, non si comprende perché i politici italiani guardino ancora a politiche neoliberiste sfrenate. Siamo sicuri che il sistema inglese a cui le ultime riforme del mercato del lavoro strizzano l’occhio, siano meglio delle nostre a cavallo degli anni ’60 e ’70? Siamo sicuri di volere un sistema che in qualsiasi momento può imporci di prendere lo scatolone di cartone con i nostri effetti personali e ridurci ai margini della società? Siamo sicuri di volere un sistema che non abbia attenzione alle bellezze artistiche che ci circondano, all’ambiente, al diritto alla salute e all’istruzione? Se vogliamo questo la strada è quella giusta, ma non facciamoci davvero convincere che tutto questo dipenda dai migranti, dall’Europa ecc.., perché ci è più comodo. Tutto questo dipende anche e soprattutto da noi. Nel sistema capitalistico italiano hanno esercitato storicamente un ruolo di fondamentale importanza gli assetti societari, fondati su due capisaldi: la proprietà familiare e la proprietà dello Stato. Entrambi questi assetti sono entrati in crisi. Tanto tempo fa, un progetto alternativo al sistema capitalistico il Pci lo aveva (condiviso anche dal Psi, e grosso modo anche dai sindacati) e si caratterizzava per un originale ruolo dello Stato, del tutto differente dall’esperienza sovietica, e da quella dei Paesi dell’Est. 1. Lo Stato era visto come fornitore di servizi essenziali: pensioni, sanità, scuola, eccetera. 2. Ma era visto anche come Stato imprenditore, almeno nei settori strategici. Al che, dopo dieci anni di privatizzazioni e/o esternalizzazioni, si pongono alcune domande: 1. Perché si è privatizzato tanto e in tempi così rapidi? 2. Perché non c’è stato nessun ripensamento, se non a carattere ideologico, almeno pragmatico? Ricordo la nota specificità della struttura industriale italiana: nell’industria metalmeccanica, su 130.000 imprese, più di 100.000 hanno 50 addetti o meno, con una media complessiva di 15 addetti per impresa. Quindi è evidente che debbano essere integrate con aziende di maggior dimensione. Nel sistema capitalistico italiano hanno esercitato storicamente un ruolo di fondamentale importanza gli assetti societari, fondati su due capisaldi: la proprietà familiare e la proprietà dello Stato. Entrambi questi assetti sono entrati in crisi. Le grandi famiglie della borghesia industriale hanno via via sostituito la strategia di lunga portata con una tendenza al profitto immediato ed alla vendita delle loro aziende alla prima occasione favorevole. Ci sono state e ci sono eccezioni anche importanti. Ma esse non modificano il quadro generale dell’economia – dalla meccanica alla chimica, dalla farmaceutica alla alimentazione, dalla informatica alla distribuzione – e sono tutte vicende concluse con l’intervento di società straniere. La proprietà pubblica, a sua volta, è stata umiliata attraverso una critica sistematica dei suoi esponenti e delle sue imprese e disgregata attraverso la privatizzazione delle sue parti più appetibili. Si è usata a questo scopo una interpretazione di comodo delle direttive della Comunità europea, che ha consentito di confondere furbescamente due concetti diversissimi: liberalizzazione del servizio e privatizzazione dell’impresa. La manovra ha riguardato, in gran parte, alcuni dei maggiori “gruppi” italiani già controllati dallo Stato, alcuni dei quali (come l’Iri, l’Efim, la Cogne), sono stati liquidati, altri (come la Telecom), sono stati svenduti, altri infine, (come l’Eni, l’Enel, la Finmeccanica), hanno abbandonato l’obiettivo per il quale erano stati fondati: essere cioè, strumenti della politica economica generale del paese, per trasformarsi in holding semipubbliche con il solo scopo del profitto. Questa politica ha avuto come conseguenza il declino complessivo del “Sistema Italia” nel mondo, perché il nostro paese si è presentato alla competizione internazionale senza alcuna strategia complessiva, né di attacco, né di difesa. Tutto ciò mentre i due maggiori Paesi continentali (la Francia e la Germania), mantenevano saldamente in mano pubblica le loro grandi imprese: dalla energia elettrica al gas, dalle telecomunicazioni alla finanza. Occorrono, quindi, non tanto nuove misure a favore delle imprese, ma una nuova e diversa politica dello Stato relativamente alla nostra presenza nell’economia del mondo…
(Fine)

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