Politica: l’ombrello del consenso non può proteggere sine die la leader dal dilettantismo suo e del suo staff. Mentre tra guerre e crisi della democrazia, l’Occidente è alla ricerca di sé stesso…

La trappola russa nella quale è scivolata, qualche settimana fa, Giorgia Meloni con tutte e due le scarpe, al netto dei penosi tentativi degli yes men dai quali è circondata di alleviarne le responsabilità dirette (i sottosegretari Giovanbattista Fazzolari e Alfredo Mantovano su tutti), esplicita in modo adamantino uno dei difetti principali della Premier. Limite che, continuasse imperterrita nella reiterazione, la porterà ineluttabilmente prima o poi, a sbattere, come già avvenuto ad alcuni predecessori affetti dal medesimo tic. Meloni, è il postulato diffuso, è brava! Ma pagherebbe il fatto di non avere una classe dirigente adeguata alla causa. Per colpa della scarsa cultura di governo di Fratelli d’Italia. Il problema principale però sembra ormai un altro: Meloni stessa non sembra essere capace di individuare le competenze necessarie a costruire una squadra degna di guidare il paese. L’inettitudine che traspare dalla vicenda dei “comici di Putin”, una gaffe planetaria che rischia di creare ulteriori tensioni con la Francia e altri alleati, coinvolge infatti tutti gli uffici di Palazzo Chigi. Quello del povero consigliere diplomatico Francesco Talò, scelto direttamente dalla premier e consegnato – forse per via di un’uscita pensionistica imminente – al pubblico ludibrio come unico colpevole. Quello dell’amica e segretaria Patrizia Scurti, sorta di vicepremier in pectore ben felice di lavorare spalla a spalla con suo marito (agente segreto in forza all’Aisi, è diventato autista personale di Meloni) ma incapace di fare filtro alla presidente del Consiglio. Fino alle responsabilità di Fazzolari, che difende il capo ma ammette senza rendersene conto un possibile coinvolgimento dell’Fsb di Putin, e a quelle dello stesso Mantovano. Se fosse vero, come sostiene il responsabile dell’autorità delegata, che la premier ha intuito subito la beffa, come mai in queste settimane il sottosegretario con delega ai Servizi segreti non ha ricostruito la catena delle responsabilità che hanno provocato il patatrac? Mantovano, ci risulta, non ha infatti contattato né il ministero degli Esteri né l’Intelligence per provare a individuare i bug del processo che ha portato il Presidente del Consiglio a chiacchierare amabilmente per 15 minuti (ma in realta per ben più tempo) di politica estera con un impostore in odore di servizi russi. Dunque, delle due l’una: o è solo colpa di Talò, che si è dimesso come imponeva la logica e la decenza. Oppure gli errori sono da suddividere con altri soggetti, che Palazzo Chigi preferisce coprire. Sia come sia, l’ombrello del consenso non può proteggere sine die la leader dal dilettantismo suo e del suo staff. Anche perché è a rischio non solo la sua immagine, ma quella dell’alta istituzione che rappresenta. In questi mesi già messa a dura prova dalle vicende balorde di Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro, di Daniela Santanchè, di Vittorio Sgarbi e del cognato Francesco Lollobrigida. Per tacere dell’affaire dell’ex compagno Andrea Giambruno. I fuorionda sessisti in cui l’ormai ex congiunto della Premier discettava di orge non sono infatti solo una vicenda privata. Le immagini hanno fatto il giro del mondo provocando nocumento a Palazzo Chigi, e soprattutto lo scandalo è stato creato ad arte dall’azienda televisiva dei “proprietari” di Forza Italia, partito della maggioranza controllato economicamente dai fratelli Berlusconi. Che sono pure datori di lavoro di Giambruno, promosso alla conduzione senza meriti alcuni, come i fatti hanno dimostrato, proprio quando la partner ha trionfato alle elezioni. Ora, la speranza è che lo scherzo telefonico dei russi sia foriero di un cambio di passo. Meloni provi a cambiare registro nella cooptazione dei suoi collaboratori, e faccia entrare nella stanza dei bottoni gli encomiabili, e non solo gli ex camerati e i vecchi amici di Colle Oppio. Per il bene di tutti… Mentre tra guerre e crisi della democrazia… l’occidente è alla ricerca di sé stesso. Che l’occidente non sia più il cuore del Mondo cominciano a capirlo in molti. A certificarlo per prima è la demografia. Per un miliardo di esseri umani “occidentali”, ve ne sono altri sette, forse più, che i nostri privilegi vivono con aperta ostilità. Riflettere su cosa possa significare ha più valore proprio in queste settimane scosse dalla strage di Hamas e da quella in corso a Gaza a opera del governo israeliano. Senza scordarsi che da quasi due anni è in corso una guerra al centro dell’Europa tra Russia e Ucraina. Occorre chiedersi: se esiste ancora una dimensione chiamata per convenzione “l’Occidente”? E nel caso, quali sarebbero profili, specialità, filo storico da avvolgere per fare chiara l’idea della sua radice? E qui il discorso si fa veramente complicato. In verità, a lungo, un’essenza dell’Occidente è esistita. Uno “spirito” occidentale che a lungo si è identificato con un principio di razionalità, perno a sua volta di un modello universale riferito a tutte le culture. A completezza, quello stesso razionalismo è divenuto, oggi, oggetto di scontro fino dentro il nostro perimetro. Il nodo principale è comprendere cosa di tutto ciò sopravviva a noi. Ci s’interroga se un capitalismo globalizzato e in crisi quasi perenne da qualche lustro, sia ancora compatibile con un modello di razionalità. Al fondo l’esplodere di diseguaglianze immorali denota anche l’irrazionalità di un modello sociale destinato a travolgere parecchi capisaldi della vecchia cultura. Di solito il discorso a questo punto dirotta sul populismo. E anche questo non convince salvo dover riconoscere come all’Europa, che dell’occidente è magna pars, manchino da tempo leadership e un pensare politico all’altezza del binomio tra una società divenuta globale e il primato della razionalità. L’esito si può declinare così: l’ultima modernità (quello denominato post-modernismo) ci ha consegnato un “pubblico globale” fidelizzato a media, social, linguaggi schematici, ma in assenza di élite attrezzate a svolgere la loro funzione. A risentirne non è solo la comunicazione, ma proprio la governabilità “razionale” di società sempre più complicate perché complici del loro impoverimento. Basta pensare, a riguardo, ad un benessere difuso ma costruito sul debito. Il debito pubblico italiano si aggira ormai, attorno ai 3000 miliardi di euro. Pensiamo alla dimensione del debito pubblico dell’intero “Occidente”. E la vittima di ciò è una, la forma politica della democrazia. Dunque, crisi dell’occidente come crisi della democrazia, nel senso di un venir meno della forza razionale in grado di organizzare conflitti e dissensi attraverso un pluralismo non distruttivo (e sul punto le piazze più estremiste di questi giorni qualcosa dicono). Fare coesistere moralità e sapere, competenze e identità, al fondo la modernità ha saputo coltivare l’intreccio districandosi tra epoche drammatiche e contraddizioni caotiche. Eppure, ci è riuscita. In una progressione di tappe spesso ha guadagnato l’uscita. Il nodo invece, oggi, è cosa accade, quando l’attrito cresce proprio attorno ai discorsi su l’utilità o il pericolo di strumenti economici o addirittura per la salute collettiva… vedasi con la pandemia di coronavirus l’utilizzo dei vaccini tracimato nel disprezzo della scienza o addirittura in minaccia a chi ne puntualizzava la supremazia. Oppure, per stare all’attualita travolgente, quando una strage orrenda come quella del 7 ottobre anima una nuova folle caccia all’ebreo mentre anche solo criticare la politica del governo israeliano scatena accuse di antisemitismo. Insomma, quale peso acquistano rottura del dialogo e scomunica del compromesso in uno scontro dove la dialettica finisce soppiantata da pregiudizi e odio? Giunti lì, razionalità e democrazia possiedono ancora le risorse utili a domare gli istinti più primitivi e distruttivi? Nella vecchia nozione di razionalità – ed era quello un modo di prevenire i danni di ora – c’era spazio per la fragilità degli uomini nella loro matrice di “legno storto”. Capacità critica e autocritica sono stati tratti distintivi di quell’impianto. Il nodo oggi è quanto di quella tradizione regge la pressione della storia. In altre parole, quale dose di razionalismo siamo ancora in grado di contenere dentro equilibri sociali e culturali scossi con tanta violenza. A modo proprio le religioni si attrezzano a rispondere nel nome di dogmi immutabili. Il nodo riguarda tutti gli altri. Quanti vivono in società secolarizzate come possono governare il momento? La stessa dimensione dei diritti nella loro unitarietà riflette il bisogno morale della loro promozione e tutela implicando perciò una piena autonomia e dignità della persona da riconoscere sempre e ovunque. Questo però è solo un capitolo. Se la domanda iniziale era “esiste ancora una nozione o essenza di occidente?”, la risposta per forza deve alzare lo sguardo sul mondo. Compresi i lineamenti politico-militari. A capirsi meglio, per tutto il secondo Novecento il conflitto tra mondo libero e blocco sovietico ha dominato la scena, legittimato attori e forgiato un vocabolario. Ma oggi cosa implica, nel concreto assetto dei poteri, l’esistenza di un regime come quello turco, annoverabile sotto l’ombrello dei regimi autoritari; eppure, secondo esercito della Nato, alleanza votata alla difesa pattizia dei confini di libertà propri dell’Occidente? La geopolitica è l’ottica attraverso cui l’Occidente “pensa il mondo”, peccato che l’Occidente il mondo, di questi tempi, lo pensi in modo sempre più diviso e divisivo. E lo stesso è spinta a fare l’Europa con conseguenze drammatiche per la sua reputazione. Non è un ragionare astratto. Come non comprendere che: lasciare giorni e notti corpi violati in balia delle onde solo allo scopo di strappare condizioni ottimali per gestire l’emergenza è la più meschina delle vie di sfruttamento del male. Qui l’universalismo dei principi muore spiaggiato, materialmente e nel simbolo. Mentre le forme del razionalismo collassano in un avvitamento indotto interamente dal cinismo delle élite. Per la politica, e la sinistra, questo è un passaggio esiziale e di fondo. Investe la possibilità di preservare la democrazia ponendola al riparo di tempeste improvvise. L’anticorpo è nella riscoperta di un ethos da condividere, un complesso di prassi e costumi da imporre non già e solamente per via normativa, o peggio penale, ma per l’azione consapevole di un civismo militante e diffuso. Perché anche da lì, o soprattutto da lì, passa la capacità di formare gli animi, lo “spirito”, di un Occidente maltrattato dai vertici. Del resto, è la storia delle nazioni a dettare questa linea. L’intreccio di demos ed ethos, l’autorità di istituzioni frutto di lotte e vissuti affinati nella forma della democrazia. Come detto, è questa combinazione a risultare fragile. E non da oggi se Jürgen Habermas denunciava la “crisi di legittimazione” dei sistemi liberaldemocratici in un capitalismo avanzato a metà degli anni Settanta. Nulla di ora ha senso paragonare ad allora se non l’erosione della pietra come quando la goccia scava senza pausa. Ma mentre di post-modernità è lecito conversare, tanto grandi danni la chiacchiera non può produrli. Ma, sulla post-democrazia si gioca il destino di noi tutti e dell’occidente per primo. Quindi su questo andrebbe concentrato il faro, senza sconti. La prova passa attraverso il restituire urgenza al Pluralismo, coltivarlo come una pianta nella serra. Farne il baluardo dinanzi agli imbarbarimenti. Si tratti di terrorismo, abuso del diritto internazionale e umanitario, disarmo culturale o smontaggio di paratie di civiltà, su questo piano l’Europa deciderà del suo avvenire. Siamo nati fortunati: figli di un pensiero e società aperte. Fortificati nel pubblico e nel privato da una democrazia solida e in apparenza irreversibile. Paganamente parlando, il cielo ci cada sulla testa se non sapremo fare il possibile e l’impossibile per consegnare lo stesso patrimonio a quelli dopo. Forse un valore interamente razionale dell’occidente è anche in questo, nel crederci fermamente e nel farlo a ogni costo…

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