Politica: la fuga degli eredi del Msi dalle loro contraddizioni. Il tentativo di nascondere le proprie radici…

Sant’Anna di Stazzema. Il disconoscimento delle radici fondative della Repubblica pone le basi per il superamento del paradigma valoriale che ha preso corpo dentro la nostra Costituzione. La fuga degli eredi del Msi dalle loro contraddizioni. Tanto Piero Calamandrei invitava i giovani a recarsi sui luoghi della Resistenza per capire dove fosse nata la nostra Costituzione, quanto oggi quei luoghi subiscono attacchi. Diretti e virulenti, assai spesso, ma anche e non meno minacciosi attacchi carsici e silenziosi. L’assenza di esponenti del governo alla manifestazione di ricordo della strage di Sant’Anna di Stazzema, nel giorno dell’ottantesimo anniversario, segnala senz’altro l’incapacità del personale politico contemporaneo di misurarsi, all’interno della sfera pubblica, con i propri limiti, le proprie mancanze e le contraddizioni del vissuto storico dei partiti d’origine. Restano impietosi, in questo senso, i confronti con i dirigenti della Democrazia Cristiana che, pur sistematicamente contestati e fischiati dalla folla a piazza della Loggia a Brescia come ai funerali delle vittime dell’Italicus o della stazione di Bologna, non rinunciarono a rappresentare il profilo istituzionale che incarnavano da ministri, capi di governo o inquilini del Quirinale. Più grave ancora, tuttavia, resta il non detto sotteso a questa condotta pubblica. Il disconoscimento delle radici fondative della Repubblica non è finalizzato “soltanto” ad una revisione strumentale della storia. Non è una battaglia per riscrivere il passato ma è un’azione volta al controllo del tempo contemporaneo ovvero al governo di un presente senza storia. È, anche, attraverso questa pratica pubblica (che parla e comunica con le parti più profonde e identitarie del postfascismo) che si pongono le basi per il superamento del paradigma valoriale che da luoghi come Sant’Anna di Stazzema ha preso corpo dentro la nostra Costituzione. Quest’ultima è il vero e dichiarato obiettivo finale di questa offensiva. Tra vittimismo e revisionismo, il progetto di Meloni è di riscrivere la storia del periodo che va dalla metà degli Anni 60 alla metà degli Anni 90 nel tentativo di nascondere le proprie radici. Sono passati tre mesi da quando Meloni disse che «la fine del fascismo pose le basi per il ritorno della democrazia». Era il 25 aprile e di più non riuscì a dire, lasciando aperta la possibilità che «la fine del fascismo» fosse arrivata a causa di un meteorite e non di una guerra anche di resistenza. Eppure, molti rimasero stupiti dal fatto che la leader del partito erede della Repubblica di Salò – la fiamma nel simbolo è sempre quella del Msi, non si scappa – riconoscesse la Liberazione come lo snodo decisivo della vita civile italiana. Giusto pochi giorni fa, però, la stessa Meloni si è prodotta in un discorso sulla strage di Bologna che incrocia abbondanti dosi di vittimismo a fastidiosi elementi di revisionismo storico. È dunque «grave» sostenere che le «radici di quell’attentato oggi figurano a pieno titolo nella destra di governo», come detto da Paolo Bolognesi. Un discorso che secondo la premier sarebbe persino «pericoloso per l’incolumità personale di chi, democraticamente eletto dai cittadini, cerca solo di fare del suo meglio per il bene di questa Nazione». I familiari delle vittime del 2 agosto 1980, insomma, in questo quadro starebbero fomentando odio contro i legittimi rappresentanti del popolo italiano. Una posizione bizzarra, per non dire del tutto offensiva. Si potrebbe dire che il caldo gioca brutti scherzi, o che le sempre più vacillanti certezze della compagine di governo stiano generando nervosismo, e così almeno si spiegherebbe perché la destra faccia del diritto sostanziale un inderogabile punto d’onore quando le conviene e poi, quando non le conviene più, si aggrappi a barocchismi cavillosi come quello della strage che «le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste». O forse il problema è un altro: a osservare con un po’ di attenzione l’evolversi degli eventi possiamo accorgerci che i tentativi di revisionismo della destra alla guida del paese non siano tanto diretti al Ventennio e alla Resistenza, quanto all’arco di tempo che va dalla metà degli Anni 60 alla metà degli Anni 90, cioè dalla nascita della strategia della tensione allo sdoganamento dei postfascisti operato da Berlusconi, l’uomo che per la prima volta li ha portati al governo. In questo senso va letto l’eterno tentativo di creare una commissione d’inchiesta «sugli anni di piombo» evocata da tanti deputati e senatori di FdI, con la palese volontà di riscrivere la storia per via parlamentare (un’idea forse addirittura peggiore di farla scrivere dalle sentenze dei tribunali). Per il resto, il discorso sulle «radici» che Meloni respinge sdegnata trova la sua ragion d’essere nelle evidenze della cronaca. Basta guardarsi intorno per trovare un considerevole numero di esempi: prima che fosse costretto alle dimissioni perché beccato a dare troppa confidenza a un narcotrafficante, il portavoce del ministro Lollobrigida era Paolo Signorelli, nipote orgoglioso del Paolo Signorelli neofascista dichiarato i cui scritti hanno influenzato tanti lottatori armati neri. Oppure si può ricordare la parabola di Marcello De Angelis, vecchia gloria di Terza Posizione, portavoce del governatore del Lazio Francesco Rocca fino al giorno in cui ha accusato «le istituzioni» di aver sempre mentito sulla strage di Bologna. Ma non è necessario cercare tra le seconde file. Poco più di un mese fa, un account di Palazzo Chigi ha celebrato la lungimiranza di Giorgio Almirante mettendolo tra i padri della patria (poi hanno cancellato il post). Quando è storia, anche giudiziaria, che nel Msi di Almirante – un po’ dentro, un po’ fuori, un po’ dentro e fuori – sono cresciuti tanti protagonisti delle trame e delle stragi nere. Mentre non c’è solo la fiamma nel simbolo a testimoniare che da lì proviene anche la destra oggi al potere, basta scorrere i nomi dello stato maggiore di Fratelli d’Italia per ritrovarci i discendenti delle più note famiglie missine: Rauti, Cantalamessa, Augello, Rastrelli, La Russa. La matrice non potrebbe essere più chiara e Meloni non può offendersi: è la sua carta di identità. Come ha ricordato il Capo dello Stato Sergio Mattarella, le radici della Repubblica trovano la loro origine in luoghi come Sant’Anna di Stazzema, teatro di una delle più efferate stragi nazifasciste compiuta durante l’occupazione tedesca in Italia nella Seconda guerra mondiale. Per questo l’assenza del governo, guidato dagli eredi del Msi, alle cerimonie dell’ottantesimo anniversario dell’eccidio mostra, ancora una volta, l’estraneità del corpo politico post-missino dalla storia della nazione repubblicana. La relazione ostile tra la vicenda della democrazia italiana ed i figli politici di Almirante si è andata manifestando fin dall’insediamento dell’esecutivo tanto sul terreno del fascismo storico (rispetto al lascito della dittatura) quanto su quello del neo e post-fascismo in età repubblicana (rispetto all’eredità missina estranea alla Costituzione fin dalla sua nascita). Così non stupisce l’impressionante serie di incredibili esternazioni, presto derubricate nel dibattito pubblico nella più bonaria forma delle «sgrammaticature», che dal presidente del Senato Ignazio Benito La Russa alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni; dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano fino al presidente della commissione Cultura Federico Mollicone hanno temerariamente attraversato l’azione partigiana di via Rasella, la strage delle Fosse Ardeatine, (rappresentata come attacco a bande musicali di anziani), la nazionalizzazione della strage delle Fosse Ardeatine (il cui movente sarebbe stato l’italianità delle vittime e non la loro identità politica antifascista), l’equiparazione antifascismo/anticomunismo come nucleo valoriale della nostra Costituzione (dimenticando che a simbolo del contributo essenziale dei comunisti italiani la nostra Carta è firmata da Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente) e infine lo stragismo neofascista degli anni ’70 e ’80, su cui è calata l’interpretazione complottista del «teorema della magistratura contro la destra». Insomma, è fascismo o non è fascismo? Voi che dite? Io, dico semplicemente, che c’è di che preoccuparsi per le sorti presenti e future delle nostre istituzioni democratiche…

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