Politica: a proposito dello sciopero generale indetto da Cgil e UIL…

Per valutare “l’effetto Salvini” sullo sciopero generale di oggi non resta che aspettare di vedere in quanti arriveranno questa mattina a Roma, a piazza del Popolo, dove saranno i segretari di Cgil e Uil, Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri. E poi sommare le adesioni dei successivi scioperi per aree regionali (il 20 in Sicilia, il 24 il nord, il 27 in Sardegna, il sud il primo dicembre). In tutto sono convocate ben 58 piazze… Nelle tre principali forze di maggioranza, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, il giudizio diffuso tra i parlamentari della coalizione di maggioranza, pronunciabile solo al riparo dai taccuini dei cronisti è il seguente: “il vicepremier Salvini, alla fine è riuscito a fare uno spot a favore del sindacato. Un vero regalo, trasformando la convocazione dello sciopero in un tema da apertura dei Tg. «Bastava la delibera del Garante», spiegava ieri, all’entrata di Montecitorio un leghista doc, «non c’era bisogno della solita reazione muscolare. Anche perché anche noi prendiamo i voti nelle fabbriche del nord, nel sindacato, dentro la Fiom: anche ai nostri la storia della precettazione fa storcere la bocca». Figuriamoci a Palazzo Chigi, dove l’insofferenza ormai è a livelli di guardia. Va bene la competizione per le europee, è il ragionamento della Meloni, ma «l’esibizionismo del consenso» è deleterio perché «mostra una maggioranza non coesa». Matteo Salvini ha voluto «polarizzare» lo scontro: e così è finito per tre giorni sulle prime dei quotidiani. Oscurando Giorgia Meloni. Anche stavolta la Premier ha fatto buon viso a cattiva sorte. Ha “coperto” la scelta della precettazione, assumendosene la responsabilità a nome del governo, e facendo spallucce a Landini che le chiedeva di ritirare il provvedimento. Ma ha dovuto frenare il vicepremier sull’intenzione di «lavorare al diritto di sciopero». Tradotto, a una stretta. «Non è intenzione del governo modificare la normativa sul diritto allo sciopero», ha chiarito Meloni. La freddezza verso le sparate contro lo sciopero è rintracciabile in tutto Fratelli d’Italia. Basta fare il conto di quanti leghisti sono intervenuti sul tema – praticamente tutti i parlamentari – e quanti del partito di Meloni, pochissimi. Il presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, Walter Rizzetto, ha persino convocato il Garante su richiesta delle opposizioni dopo che la Lega in blocco si era espressa contro… Insomma, anche stavolta Salvini si è preso la palma mediatica e la Premier ha dovuto caricarsi il peso politico dell’attacco ai diritti. Meloni peggio di Matteo Renzi, dicono i sindacati, e detta da loro è un’accusa pesante. «Persino Renzi ha fermato la precettazione dopo che il suo ministro l’aveva disposta», ha ricordato Bombardieri. Il riferimento è alle proteste per il Jobs act, dicembre 2014. Alla vigilia dello sciopero generale, l’allora premier aveva stoppato gli annunci del ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, e aveva buttato acqua sullo scontro con Susanna Camusso, leader Cgil: «Il diritto di sciopero è garantito dalla Costituzione e noi lo rispettiamo. Il fatto che io non sia d’accordo sullo sciopero non toglie che la protesta si faccia». Meloni non l’ha fatto. Non ne ha avuto la forza né l’intenzione: per non farsi scavalcare ancora una volta a destra da Salvini… Eppure, per la premier il tema del lavoro è un tallone d’Achille: basta ricordare la fatica fatta per sventare il salario minimo che però piace anche all’elettorato di destra. Fatica ancora in corso. Giovedì in commissione Lavoro alla Camera le destre hanno presentato un emendamento che cancella definitivamente la proposta delle opposizioni e prevede una delega al governo: entro sei mesi dovrà adottare «uno o più decreti legislativi» volti «a intervenire in materia di retribuzione dei lavoratori e contrattazione collettiva» per «garantire l’attuazione del diritto di ogni lavoratore e lavoratrice a una retribuzione proporzionata e sufficiente». Insomma, il parlamento viene espropriato del tema, e il salario minimo scompare dal tavolo. Al suo posto vaghi obiettivi: «Assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi», «contrastare il lavoro sottopagato», «stimolare il rinnovo dei contratti collettivi». Un «colpo di mano», per le opposizioni, che denunciano persino il ritorno alle «gabbie salariali» (Rizzetto smentisce). In ogni caso annunciano un’altra battaglia campale. Per contrastare il racconto di una premier poco attenta ai salari, giovedì da Palazzo Chigi è stata impressa enfasi all’incontro con le organizzazioni sindacali di forze armate, polizia e vigili del fuoco e alla promessa di un immediato rinnovo contrattuale. Ma la verità è che da qualche settimana le iniziative di Meloni girano a vuoto, senza raccogliere il consenso sperato. O falliscono, come il tentativo di trascinare Elly Schlein alla festa di Atreju, in un gioco a vincere che le era riuscito con Enrico Letta. O si trasformano in un boomerang, come il pasticcio dell’accordo con l’Albania sui migranti. Salvini invece è in surmenage da competizione. Il 3 dicembre la Lega farà tornare in Italia, a Firenze, Marine Le Pen, in compagnia del gotha dei nazionalisti antieuropei, compresa Alice Weidel di Alternative für Deutschland, per lanciare un nuovo cantiere nero. Il sindaco Dario Nardella pensa a una controprogrammazione: una «giornata europea» in cui tutta la comunità democratica si mobiliti con parole radicalmente alternative. Per Meloni sarà un altro stress test: di nuovo le toccherà digerire le sparate del vicepremier. E forse persino difenderle… e a proposito dello sciopero generale indetto da Cgil e UIL, un parere autorevole di un economista e studioso delle relazioni industriali il Prof. Giuseppe Bianchi, Presidente dell’Isril con la Nota n. 11 – 2023 dell’Istituto di studi che presiede (istituto che come si sa, che è molto vicino alla Cisl la Confederazione sindacale che è critica sulla Manovra di Bilancio alla pari di CGIL e UIL, ma che non partecipa allo sciopero) ma che è sempre stato decisamente autonomo nei giudizi e che scrive: «Di fronte all’inquietante scenario mondiale nel quale il nostro Paese fatica a trovare il suo posizionamento, reso difficile dalle avversità che accentuano le sue fragilità, il nuovo conflitto aperto tra Governo e Cisl e UIL sulle condizioni di realizzazione di uno sciopero generale sollecitano il più ampio pessimismo sulla capacità dell’attuale classe dirigente di essere all’altezza delle sfide che sono in campo. L’avvocatesca distinzione fra sciopero generale e sciopero plurisettoriale nasconde un conflitto di potere che intorbidisce il futuro del Paese, sia dal lato della sua sostenibilità economica e sociale che della sostenibilità democratica. Il dato di fatto è che si va perdendo la distinzione tra rappresentanza politica e rappresentanza sindacale ed è il nostro più autorevole politologo, Norberto Bobbio a ricordarci “che la rappresentanza politica è l’esatta antitesi di quello su cui si fonda la rappresentanza sindacale” (Il futuro della democrazia, pag. 19). Il rappresentante politico è chiamato a perseguire gli interessi della collettività, senza vincolo di mandato mentre il rappresentante sindacale deve perseguire gli interessi particolari del rappresentato ed è soggetto ad un mandato vincolato, proprio del contratto privato che prevede la revoca. Il rappresentante politico agisce nell’area della democrazia politica e realizza i suoi obiettivi partecipando alla produzione di leggi vincolanti per tutti i cittadini mentre il rappresentante sindacale agisce nell’area della democrazia degli interessi, realizzando i suoi obiettivi di tutela dei rappresentanti tramite la contrattazione collettiva. L’integrazione fra le due rappresentanze da stabilità ai sistemi democratici che non prevedono solo un equilibrio fra i diversi poteri interni dello Stato ma anche un gioco partecipativo allargato al coinvolgimento delle rappresentanze degli interessi che godono di una propria capacità di autoregolazione sociale in grado di influenzare, in una economica di mercato, la dinamica degli investimenti innovativi e la produttività delle combinazioni produttive che risentono dell’appropriatezza delle regole contrattuali. In questo assetto democratico il Sindacato non è il tutore di interessi corporativi ma agente del cambiamento sociale nella misura in cui proietta gli obiettivi di rivalutazione del lavoro nei processi innovativi della società. Il declino del lavoro, in atto da decenni, non può essere dissociato dal trascinamento in atto di un pluralismo sindacale competitivo che ha indebolito la condivisione di valori e di prassi tendenzialmente unitarie del mondo del lavoro, per contrastare lo squilibrio strutturale nei confronti del capitale. La commistione in atto tra rappresentanza politica e rappresentanza sindacale alimenta ulteriori divisioni che ritardano quell’adattamento nelle strutture rappresentative e nelle strategie di tutela in grado di cogliere e rappresentare le aspettative di un mondo del lavoro, oggi frustrato dalle dinamiche, a lui non favorevoli, che stanno investendo le strutture occupazionali e i processi di ridistribuzione del reddito. La politicizzazione dei rapporti sindacali accentua nel Paese quella polarizzazione agli estremi che non agevola di certo il già difficile percorso a favore di una crescita economica equilibrata dal punto di vista ambientale e sociale».

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