Politica: autogol costituzionale. Il premierato di Giorgia nulla di più che uno slogan elettorale. Meloni prova a tirare la palla in tribuna, senza accorgersi che quella è la sua porta…

Prima ancora delle tecnicalità sulle riforme, pomposamente annunciate da Giorgia Meloni come un ingresso nella Terza Repubblica, conta la ragione politica della sbandierata accelerazione sull’elezione diretta del premier. Che molto ha a che fare col cambio di fase dentro il governo, tra l’evocazione di complotti immaginari attorno al caso Giambruno e la tensione reale con gli alleati sulla manovra. Nessuna crisi di governo, ma tutto questo è stato già sufficiente a innescare una spirale di sospetti e vendette, dall’aumento del tetto pubblicitario alla Rai allo stop sul decreto energia al pasticcio sulla riforma Nordio in un clima di crescente nervosismo della premier tra vittimismo e aggressività, sindrome da “piccola fiammiferaia” bistrattata e Giovanna d’Arco alla crociata, “schiena dritta” e sguardo torvo. Calata in questo contesto, la carta dell’elezione diretta del premier rappresenta per Giorgia Meloni, al tempo stesso, una spada di Damocle, ad uso interno, e una bandiera, ad uso esterno. La spada di Damocle è brandita verso gli alleati, secondo il classico schema di parlare a nuora perché suocera intenda: se continuate così, scateno una campagna, dal sapore plebiscitario sui poteri del premier, e vediamo chi vince. La mossa racconta di una evidente preoccupazione di essere logorata riconducibile soprattutto al volto di un’altra donna: Marina Berlusconi. In attesa di capire cosa vorrà fare da grande la Cavaliera sulla politica, la sua, tra extraprofitti e caso Giambruno, è già la storia di una leadership senza una discesa in campo, riflesso automatico e per certi versi obbligato di quell’intreccio strutturale che va sotto il nome di partito proprietario. E dunque viene vissuta come una minaccia da Giorgia Meloni. Che, non potendo permettersi che l’altra si presenti quando lei è consumata, gioca d’anticipo. Con una riforma tagliata su misura dal centrodestra, che prova a cambiare la Costituzione mettendo dentro tutte le battaglie di Meloni e dei suoi alleati: l’elezione diretta del premier, ma anche una travagliata norma anti-ribaltoni, lo stop ai governi tecnici e infine il no ai nuovi senatori a vita, che alla coalizione di governo non piacciono dai tempi in cui Napolitano scelse Mario Monti come premessa all’ascesa a Chigi al posto di Berlusconi. La bandiera politica invece le consente di costruire una way out e una narrazione di qui alle Europee, che tiene saldi i fondamentali del vittimismo: “Non è colpa mia se non funziona nulla, ma è colpa di lacci e lacciuoli che mi impediscono di governare e allora cambiamo il sistema”. Ha a che fare con la contingenza, ma anche con i pochi risultati da “vendere”, dall’immigrazione fuori controllo all’annunciato splashdown del Pnrr all’inflazione sudamericana. Bandiera, appunto, perché non c’è un solo elemento di carattere istituzionale, e non squisitamente politico, che abbia impedito a Giorgia Meloni di governare. Anzi, a regole vigenti nulla l’ha ostacolata nemmeno nell’opera di occupazione del potere, decisa e decisionista, dalla Rai alle aziende di Stato fino agli apparati dello Stato, per la prima volta inseriti nel meccanismo dello spoil system. Vediamo se fa sul serio, o se sarà solo una lunga campagna elettorale per dare la colpa agli altri, magari pure sulle riforme che non si faranno. In fondo, il premierato di fatto c’è già. E contarsi su quello di diritto è sempre cosa rischiosa. Infatti, l’improvviso rilancio sulle riforme costituzionali, nel bel mezzo di una guerra mondiale (o quasi) e soprattutto di una guerra civile dentro la maggioranza (sulla legge di bilancio), non appare la più lucida delle sue scelte. Se avesse voluto un diversivo, avrebbe fatto meglio a scegliere altro… Capisco che parlare di mossa della disperazione a proposito di Giorgia Meloni esponga a facili, scattanti e non imprevedibili repliche, sulla magnificenza dei suoi sondaggi, sullo stato moribondo delle opposizioni e sulla conseguente mancanza di alternative. L’originalità non è mai stata la forza del nostro dibattito pubblico. Resta il fatto che l’improvviso rilancio sulle riforme costituzionali, non appare decisamente la più lucida delle scelte compiute dalla nostra Presidente del Consiglio. È anche vero che i cavalli di battaglia generalmente utilizzati in simili occasioni erano al momento poco spendibili. L’immigrazione? Tasto dolente. La sicurezza? Sei al governo del paese, di quasi tutte le regioni e di buona parte dei comuni, con chi te la vuoi prendere? Resterebbero giusto le malefatte di Macron e degli altri partner europei, ma vogliamo riaprire l’ennesima crisi diplomatica con la Francia e isolarci ulteriormente in Europa, rovinando l’unico terreno, la politica estera, su cui comunque Meloni è riuscita a ottenere qualche riconoscimento? Dopo la sfilza di figuracce collezionate su una manovra che doveva essere inemendabile e blindata, e dopo essersi vantata in conferenza stampa di averla approvata in poche ore (in Consiglio dei ministri), definendola pure una grande prova di leadership, Meloni ha pensato dunque di giocare la carta delle riforme costituzionali. Così, tanto per tirare la palla in tribuna, ma senza rendersi conto che quella era la sua porta. Confidando nell’intelligenza dei lettori, ma non troppo nella loro pazienza, non rifarò, per l’ennesima volta, l’elenco di tutti quelli che hanno imboccato la stessa strada e sono finiti contro un muro. Quanto ai sondaggi meravigliosi e all’assenza di alternative – non solo per la divisione e per la debolezza delle opposizioni, ma anche per la dichiarata indisponibilità dei loro principali leader a qualsiasi soluzione che non passi dal voto – faccio rispettosamente notare agl’intelligenti ma poco pazienti lettori che si diceva lo stesso all’inizio della scorsa legislatura (lo si dice sempre, all’inizio della legislatura) ed è finita con ben quattro governi e altrettante maggioranze, ognuna diversa dall’altra, in quasi tutte le combinazioni aritmeticamente possibili. Non avendo nessuno di noi tempo da perdere, non entro dunque nel noiosissimo merito della fantasiosa riforma, l’elezione diretta del premier (in più senza la sfiducia costruttiva sarebbe un ‘unicum’ mondiale) se non per ricordare che l’elezione diretta del premier, ovviamente, qualunque cosa si scriva a proposito delle sue prerogative, e anche se per assurdo si mettesse nero su bianco che non conterà assolutamente niente, non può non alterare completamente e comunque l’equilibrio dei poteri tra Palazzo Chigi e Quirinale, costruendo le condizioni per controversie infinite, dal momento in cui si finirebbe per dare al capo del governo una legittimazione superiore (con l’elezione diretta) rispetto a quella del capo dello Stato, che dovrebbe essere (e rimanere) a lui sovraordinato. Ma stiamo parlando, appunto, del nulla. Più interessante, semmai, sarebbe capire come Meloni possa essere arrivata a pensare che gli altri partner della maggioranza, così poco collaborativi sulla legge di bilancio, diventeranno leali e preziosi alleati proprio sulle riforme costituzionali, terreno ideale per ogni possibile manovra ostile. A meno di non voler credere che proprio su questo argomento Matteo Salvini, per dirne uno, al dunque farà prevalere il merito delle questioni, la parola data, le promesse fatte in campagna elettorale e i principi professati fino al giorno prima sulla convenienza tattica del momento. Se non volete chiamarla mossa della disperazione trovate pure un’altra definizione, ma mi pare evidente che non è una scelta lucida…

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