Politica: C’è solo la destra. L’improponibile parata solitaria di Meloni e l’eclisse politica di tutti gli altri. L’egemonia canaglia. Il lungo viaggio attraverso il revanscismo culturale della destra. Il paradosso riformista. Capace di vincere tutte le battaglie e perdere la guerra…

Non si sa bene da dove cominciare… proviamo a prenderla per questo verso. In sette mesi la Presidente del Consiglio non ha fatto granché, eppure sembra non avere rivali. La sinistra confusa e senza idee è scomparsa dal Parlamento, dalle piazze, dal dibattito pubblico. E né Schlein né Conte sembrano in grado di orchestrare una caduta di Governo, come successe, ormai ventinove anni fa, con Berlusconi. La prima parata del 2 giugno nell’età della destra al potere ha plasticamente (e televisivamente) evidenziato che c’è un solo giocatore in campo, come si dice a tennis quando uno domina e l’altro è scomparso. Sembra di essere tornati al 1994. Ricordate? Silvio Berlusconi aveva vinto le elezioni con un partito nuovo, aveva unito il centro-destra e sbaragliato la «gioiosa macchina da guerra» avversaria, e in quel momento c’era lui e lui solo, con variopinte e scollacciate truppe al seguito – ma anche con una bella dose di notevoli cervelli – più due alleati politicamente in ascesa, Umberto Bossi e Gianfranco Fini. Però era tutto un dominio di Berlusconi. Oggi la scena è simile. C’è solo Giorgia Meloni – e suoi seguaci – e anzi non ci sono più nemmeno i Bossi e i Fini (oddio, c’è ancora Berlusconi che però pare il nonno di quello del ’94). Come allora, anche oggi la sinistra (o centrosinistra, col trattino, senza trattino, Unione, campo largo, alleanza strategica eccetera) è fuori, out. Semplicemente, non esiste. Non esiste nella battaglia parlamentare (anche perché il Parlamento inteso come arena del confronto politico non c’è più), non esiste nelle piazze, non esiste nel dibattito pubblico con le sue idee, non esiste nemmeno più in tv – ci sono programmi sulla crisi del Partito democratico senza esponenti del Pd. Non si scomodi la categoria dell’egemonia che implica l’esistenza di (almeno) due parti avverse tra loro connesse mediante un certo tipo di rapporto di forze. Lodevole l’impegno dello studioso Michele Prospero che sulla nuova Unità scrive lunghissimi pezzi sull’attualità di Antonio Gramsci: ma qui Gramsci non c’entra niente, non c’è alcuna guerra di posizione, nessun intellettuale collettivo come moderno Principe, nessun blocco storico. Al più, se vogliamo adoperare un’altra categoria gramsciana, c’è una specie di rivoluzione passiva che però sembra una ritirata in ordine sparso. Andando più terra terra, in questa situazione alla sinistra sembrano mancare totalmente le idee – ne scriveva Giovanni Orsina sulla Stampa – perché ne mancano i presupposti, una seria e aggiornata lettura delle domande sociali, e di conseguenza è assente una ricetta, una proposta generale di governo in grado di rimetterla in piedi. I progressisti, insomma, si stanno ritirando nel mugugno e nell’autocoscienza ma sempre con il ditino alzato contro la destra al potere (non solo al governo: proprio al potere) senza fornire un embrione di alternativa; e se sperano di venirne fuori grazie alle famose contraddizioni interne alla destra o con i trucchetti parlamentari l’impressione è che s’illudono. Questa volta, a differenza del 1994, non ci sarà nessuna manovra tipo quella che portò alla caduta del primo governo Berlusconi e alla nascita del governo Dini, non solo perché non ci sono più i Massimo D’Alema e i Gerardo Bianco di una volta – oggi, abbiamo Elly Schlein e Giuseppe Conte – ma soprattutto perché, come detto, stavolta la destra è granitica e ha un solo leader e non tre o quattro. Il risultato è che Giorgia Meloni è a tutti gli effetti il capo – la capa – del Paese. Lasciamo stare qui se sia all’altezza oppure no. Si può notare e dire che in sette mesi il governo non ha fatto granché eppure lei ha preso – sta prendendo – tutto il potere via via tagliando le unghie ai contropoteri (vedasi Corte dei conti) l’espressione è un po’ impropria ma per capirci – e impadronendosi con voracità e velocità inedite di gangli fondamentali dello Stato e dell’informazione. Meloni ha tra le mani un potere enorme, limitato ormai (e non è poco) solo dal garante della Costituzione Sergio Mattarella, almeno fino a quando il Paese non verrà subliminalmente convinto che chi conta davvero è il Presidente del Consiglio (Premierato votato dal popolo) e non quello della Repubblica. Ieri ha chiesto di «remare nella stessa direzione» nella convinzione non peregrina che lo Stato sia ormai ai suoi piedi. Le opposizioni dovrebbero marcare il governo passo dopo passo e al tempo stesso costruire una propria agenda. Ne sono lontanissime. Nemmeno il Terzo Polo riesce a farsi partito unico, figuriamoci a che punto di scollamento con la realtà siamo arrivati. Schlein doveva trovarsi in luna di miele e invece è già in crisi. Conte, come volevasi dimostrare, è solo un ‘azzeccagarbugli’ a difesa di piccoli strapuntini di potere. I sindacati sono divisi e alla fine inconcludenti. Quasi trent’anni dopo, dunque, siamo tornati al punto di partenza: c’è solo la destra in campo, questa destra che ha le sembianze di Ignazio La Russa e non quelle di Giuliano Urbani, di Francesco Lollobrigida e non di Antonio Martino. La fotografia della tribuna d’onore alla parata del 2 giugno, con Mattarella attorniato da La Russa, Attilio Fontana e Meloni in questo senso metteva un po’ paura. Elly non c’era. Calenda nemmeno, Renzi era in trasferta all’estero in Giordania e partecipava al matrimonio reale tra il principe ereditario Hussein e Rajwa, in ottima compagnia con lui e la moglie, alla cerimonia hanno partecipato anche la first lady Usa Jill Biden, l’erede al trono britannico William e la consorte Kate. Da noi, ormai, c’è solo la destra in campo. Se proprio si vuole, si potrà lodare l’astuzia, la prontezza di riflessi o il pragmatismo di Giorgia Meloni. Difficile e prematuro attribuirle storiche vittorie politiche e culturali… Infatti,le attuali rivendicazioni dei meloniani contro l’egemonia culturale della sinistra sono la solita solfa mal posta e senza alcuna speranza di reale successo, tanto più che gli odierni protagonisti sono decisamente meno attrezzati dei loro predecessori. Da tempo il nostro dibattito pubblico si è specializzato in una singolare forma di analisi: la profezia che si è già autoavverata. Ultimo esempio il coro di giornalisti, analisti e intellettuali intenti a dire e scrivere ogni giorno quanto la destra abbia saputo conquistare i centri nevralgici della cultura e della comunicazione, riuscendo così a imporre le sue narrazioni e la sua egemonia. Basterebbe che la metà di loro ci risparmiasse simili analisi a posteriori almeno per due settimane, e verrebbe meno l’oggetto stesso del dibattito che ovviamente, non ha niente a che fare con la questione delle nomine in Rai o in qualunque altro ente pubblico: ne è anzi l’esatto contrario. A questo strano tic se ne accompagna di solito un altro, e cioè la tendenza compulsiva ad accreditare l’apertura di cicli storici e nuove epoche a ogni vittoria elettorale, locale o nazionale, in Italia o all’estero. In tal modo le sconfitte in Grecia e Spagna segnano la crisi storica di quella Sinistra socialista, o per meglio dire Socialdemocratica, che la vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd aveva appena rilanciato, mentre la vittoria della destra in Svezia conferma l’avanzata populista che la sconfitta di Marine Le Pen in Francia aveva sepolto un minuto prima, e così via, in un proliferare incessante di onde lunghe che evaporano prima ancora di toccare il bagnasciuga e venti impetuosi che durano meno di uno starnuto. Ancora più curioso, però, è che tale tendenza si diffonda nell’Italia di oggi, in cui ogni banale dato di cronaca conferma, al contrario, l’estrema volatilità del consenso e del potere. Emblematico più di ogni altro è il caso di Luigi Di Maio, capo politico di quel Movimento 5 stelle che nel 2018 vince le elezioni con il trentadue per cento, da tutti i più autorevoli osservatori giudicato il più abile, il più sagace, il più sottilmente politico dei grillini, ma incapace di raggiungere l’uno per cento alle elezioni successive e pertanto oggi fuori dal Parlamento. Mentre da rappresentante Ue per il Golfo, riappare sui Social, da cui era scomparso. Ma gli bloccano i profilo social, ma tra qualche giorno, lo sdoganeranno… Ma si potrebbero a buon diritto fare molti altri nomi. Nella prematura celebrazione della grandiosa avanzata di Fratelli d’Italia, e nei tanti tentativi di spiegarne la poderosa operazione egemonica e la portentosa offensiva ideologica e culturale, c’è però qualcosa di più, c’è una sfida al principio di non contraddizione ( di fatto i ‘pieni poteri’) che va al di là di tutti i pur numerosi e notevoli precedenti. La semplice evidenza empirica ci dice infatti che Fratelli d’Italia, nel passaggio dall’opposizione al governo, ha fatto esattamente quello che ha fatto la Lega quando è passata dal ruolo di oppositore del (secondo) governo Conte a quello di membro a pieno titolo del governo Draghi, e prima ancora il Movimento 5 stelle nel salto – triplo, carpiato – dal (primo) governo Conte a tutti i successivi esecutivi della legislatura. Tutti e tre questi partiti avevano passato la legislatura precedente (2013-2018) all’opposizione del centrosinistra, su una linea politica esplicitamente antieuropeista e anti-euro, ultra-populista tanto in economia quanto su diritti civili e immigrazione, smaccatamente filo-putiniana in politica internazionale (Meloni, Salvini e grillini facevano a gara nel chiedere di rimuovere le sanzioni decise da Usa e Ue dopo l’annessione della Crimea), oltre che, va da sé, pro Brexit e pro Trump. Se ciascuno di loro, una volta arrivato al governo, ha dovuto rimangiarsi nove decimi delle parole d’ordine dei dieci anni precedenti (Lega e Fdi si sono tenuti la propaganda anti-migranti e anti-lgbt, il M5s si è ripreso, in forme appena più ipocrite, un bel po’ del filo putinismo iniziale), ebbene, tutto potrà dirsi delle loro vittorie meno che siano state l’inizio di chissà quale rivoluzione culturale, men che meno che abbiano inaugurato nuovi cicli e nuove epoche. Al contrario, se le parole hanno ancora un senso, una simile parabola testimonia semmai l’egemonia degli europeisti, dei riformisti e dei liberali che in questi anni, mentre altri raccoglievano firme per uscire dall’euro o per cancellare le sanzioni alla Russia, alimentare la peggiore propaganda no vax o bloccare opere pubbliche essenziali (Tav), difendevano davvero l’interesse nazionale, il futuro dell’Europa e quello dell’Italia, oltre come si è già accennato, il principio di non contraddizione. L’elenco delle campagne martellanti che la destra populista ha condotto all’opposizione e poi si è rimangiata al governo (o si appresta a rimangiarsi ora) potrebbe continuare ancora a lungo, dai rigassificatori al Mes, dal fisco a praticamente qualsiasi altro argomento dello scibile umano. Ed è un vero peccato che il Partito democratico, per calcoli di corto respiro o per genuino odio di sé, abbia nel frattempo ammainato in tutto o in parte molti di quei vessilli, o abbia comunque fatto mostra di vergognarsene, nel suo disperato inseguimento dei populisti grillini. Si potrebbe dire che: è il grande e imperdonabile paradosso dei riformisti italiani ma non solo, capaci di vincere tutte le battaglie e perdere la guerra…

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