Politica: conflitto Israelo-Palestinese, lasciare da parte religioni, razzismi e ideologie. Cosa ci dice la ragione…

Non è facile in questi giorni terribili – in cui, a dominare sono empietà e disperazione – aggrapparsi alla ragione per evitare di cadere preda dell’emozione. Non è facile; eppure, proprio per questo, è sempre più necessario. Cosa può, dunque, dirci la ragione di fronte all’orrore che s’impone ai nostri occhi? Principalmente sei cose… La prima: È in pericolo la sopravvivenza stessa di Israele! Non è vero. Per quanto l’azione di Hamas sia stata impressionante per brutalità e dimostrazione di forza, la potenza militare di cui dispone lo Stato ebraico è tale per cui nessuna organizzazione armata – sia essa un gruppo terroristico, una milizia irregolare o un esercito statale – è in condizione di metterne militarmente a repentaglio l’esistenza. L’equipaggiamento e l’addestramento dell’esercito israeliano sono tra i migliori al mondo; le risorse a disposizione, grazie al sostegno statunitense, praticamente illimitate; la capacità di mobilitazione – che può giungere a schierare in armi il dieci per cento della popolazione – inarrivabile. A questo si aggiunge la deterrenza nucleare: con la capacità di lanciare tanto un primo attacco, quanto un attacco di rappresaglia (grazie a sottomarini dotati di testate nucleari costantemente in navigazione). La seconda: l’occupazione della Cisgiordania e il controllo di Gaza da parte di Israele (con la conseguente repressione militare) sono azioni che violano il diritto internazionale. Nel 1967 Israele – sotto la guida di un governo laburista – ha attaccato gli Stati arabi confinanti, conquistandone importanti porzioni di territorio (il Sinai e il Golan, oltre alla Cisgiordania e alla striscia di Gaza). Successivamente, la Giordania e l’Egitto hanno rinunciato a reclamare per sé la restituzione di Cisgiordania e Gaza, affinché su quelle terre potesse sorgere, sia pure in misura ridotta, lo Stato palestinese previsto dall’Onu nel 1947. Numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu impongono a Israele il ritiro dai territori occupati nel 1967, ma ciò è avvenuto solo per il Sinai, dopo un accordo di pace separato con l’Egitto. Ne segue che Israele è a tutt’oggi, in violazione del diritto internazionale, la potenza occupante nei territori rimasti sotto il suo controllo e, come tale, è responsabile del mantenimento dello status quo e dell’incolumità dei civili ivi residenti. L’espulsione dei palestinesi dalle terre occupate e la loro sostituzione con i coloni israeliani, così come la repressione militare dei palestinesi (tanto più se in forme violente o tramite sistemi di punizione collettiva) sono, dunque, anch’essi atti lesivi dell’ordine giuridico internazionale.  La terza: il popolo palestinese ha il diritto alla propria autodeterminazione politica e il diritto di resistere all’occupazione israeliana nei limiti dettati dal diritto bellico a tutela dei civili. I palestinesi hanno provato a ottenere un proprio Stato indipendente e sovrano prima con la violenza, poi con le trattative, poi di nuovo con la violenza. In tutti i casi hanno fallito. Ciò non toglie che, sulla base dell’ordinamento internazionale, mantengono, come tutti i popoli del mondo, il diritto alla propria autodeterminazione politica e il diritto di resistere, anche con la forza, all’occupazione militare dei propri territori. Naturalmente, il diritto di resistenza armata implica il dovere di sottostare alle norme del diritto bellico, il cui scopo principale è preservare la sicurezza dei civili: ne segue che gli attacchi armati condotti dai palestinesi contro i civili israeliani, così come il loro sequestro, sono, diversamente da quelli condotti contro i militari, atti lesivi dell’ordine giuridico internazionale. La quarta: fare finta che la questione palestinese non esista alimenta la guerra. Lo ha detto chiaramente Josep Borrell, responsabile della politica estera dell’Unione europea: «dobbiamo cercare una soluzione per la questione palestinese: non possiamo pensare che possa essere incapsulata, congelata e dimenticata: serve una soluzione. Il problema non scomparirà: diventerà sempre peggio, con il tempo». Negare l’esistenza della questione palestinese è la versione aggiornata della favola per cui il sionismo avrebbe dato una terra senza popolo a un popolo senza terra. La verità è che un popolo, nella terra della Palestina storica, c’era e c’è. Più Israele e la comunità internazionale ignorano la questione palestinese, più ciò alimenterà un ciclo continuo di violenza e rappresaglie. Pretendere, come vorrebbe Israele, che i palestinesi accettino supinamente l’occupazione e l’oppressione militare è un’illusione pericolosa. Quinto: gli amici di Israele devono farsi promotori della pace. È oramai evidente che, da soli, israeliani e palestinesi non sono in grado di giungere all’unica soluzione negoziale possibile: il ritiro di Israele, coloni inclusi, dai territori occupati nel 1967 in cambio non della mera pace, ma – cosa spesso sottaciuta – della rinuncia dei palestinesi al ritorno dei profughi del 1948 (cui pure avrebbero diritto secondo il diritto internazionale). Ciò che principalmente ostacola questo esito è il fatto che rinunciare alle colonie per Israele significa esporsi al rischio della guerra civile. Solo un intervento dall’esterno, che costringa Israele a scegliere tra ritirare truppe e coloni dai territori occupati nel 1967 o rinunciare al sostegno incondizionato degli Stati Uniti e dei loro alleati, potrebbe cambiare la posizione israeliana. Qualsiasi appello alla soluzione dei due Stati che non preveda espressamente lo smantellamento delle colonie israeliane e la rinuncia al ritorno dei profughi palestinesi è un mero esercizio retorico. Sesto: se si rifiutano sia la guerra sia la soluzione negoziale a due Stati, residuano due alternative: o l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania o la trasformazione di Israele in uno Stato binazionale. La prima alternativa implica la pulizia etnica della Palestina storica dai circa cinque milioni di palestinesi che vi abitano attualmente: ciò comporterebbe una violazione del diritto internazionale così clamorosa da escludere – si spera – possa avere l’avallo degli stessi amici di Israele. La seconda alternativa implica ritenere che, a causa delle colonie costruite da Israele, la commistione tra i due popoli è oramai inestricabile: in questa prospettiva, i palestinesi dovrebbero lottare per divenire cittadini d’Israele a pieno titolo, sebbene per Israele ciò significherebbe rinunciare all’ideale dello Stato ebraico e sancire la fine del sionismo (vale a dire, una rinuncia ancora più radicale della rinuncia ai territori occupati nel 1967). In conclusione: la fine del conflitto dipende essenzialmente da Israele, che, in astratto, ha di fronte a sé tre opzioni: (1) ulteriormente inasprire la violazione del diritto internazionale, attraverso la pulizia etnica; oppure rientrare nell’alveo della legittimità giuridica (2) accettando la soluzione dei due Stati o (3) trasformandosi in uno Stato binazionale. Altrimenti, le azioni militari israeliane potranno mettere temporaneamente fuori gioco i combattenti palestinesi, ma sul lungo periodo il ciclo violenza-rappresaglia riprenderà e sarà la prosecuzione del conflitto. È per questo che la comunità internazionale non aiuta la pace sostenendo incondizionatamente Israele: una comunità internazionale realmente interessata alla pace, dovrebbe aver chiaro che la parte su cui fare pressione non è solo quella palestinese (che ha una sola carta in mano), ma quella israeliana (che ha in mano tutte le restanti carte del mazzo) …

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