Politica: G20 Leaders’ Summit, New Delhi. Dopo questo diciottesimo vertice dei capi di Stato e di governo dove va il mondo?

Il vertice dei capi di Stato e di governo che si è tenuto negli scorsi giorni del 9 e 10 settembre a Nuova Delhi è stato il culmine di tutti i processi e gli incontri del G20 tenuti nel corso dell’anno corrente tra ministri, alti funzionari e società civile. Al termine del vertice di Nuova Delhi è stata adottata una dichiarazione dei leader del G20, in cui si afferma l’impegno dei leader nei confronti delle priorità discusse e concordate durante le rispettive riunioni ministeriali e dei gruppi di lavoro. La conferenza di Nuova Delhi ha messo in evidenza il ruolo crescente dei paesi in via di sviluppo: la politica internazionale ha un nuovo centro nel Pacifico e nell’Oceano Indiano, dove si trovano i paesi ricchi di petrolio e di gas, dall’Arabia Saudita ai paesi del Golfo Arabico e all’Iran. In questo contesto assistiamo a una sostanziale e costante emarginazione dell’Europa. La novità vera in quanto inaspettata è l’accordo unanime raggiunto a Nuova Delhi, sotto la direzione del governo indiano, in occasione dell’incontro dei venti paesi più importanti, compresa la rappresentanza della Commissione europea. È passato meno di un anno da quando, nel corrispondente incontro di Bali in Indonesia, un accordo tra i paesi partecipanti si era rivelato impossibile. L’accordo rappresenta un successo del governo indiano guidato da Narendra Modi per la sua capacità di mediare tra potenze mondiali contrapposte in relazione alla guerra in Ucraina. Il significato dell’accordo, al cui centro era appunto il conflitto fra Russia e Ucraina, è apparso in tutta la sua importanza sui giornali che aprivano con l’immagine della presidenza con al centro Narendra Modi, alla sua destra Joe Biden e alla sinistra Lula Da Silva. Un’immagine lontana dalla divisione tra le maggiori potenze mondiali provocata dalla guerra in Ucraina. L’immagine di Lula al vertice della conferenza – la Cina era rappresentata non dal presidente Xi ma dal Capo del governo Li Quang – ha un doppio significato. Da un lato, il ruolo del Brasile come paese guida dell’America del sud intesa in un senso ampio comprendente Venezuela e Cuba; dall’altro, il suo nuovo ruolo testimoniato dall’incontro a Pechino tra Lula e Xi Jinping. Accordo segnato dall’attribuzione della presidenza dei BRICS – l’organizzazione che comprende oltre a Brasile e Cina, India, Russia e Sud Africa – a Dilma Rousseff, già presidente del Brasile. Il nuovo quadro delle relazioni internazionali ha avuto un particolare e inatteso sviluppo con il viaggio di Xi Jinping a Riad, capitale dell’Arabia Saudita. Un incontro poi definito con l’accordo siglato a Pechino tra Arabia Saudita e Iran – due Paesi da molti anni segnati da diverse posizioni politiche e dal sanguinoso conflitto in Yemen che li ha visti su posizioni contrapposte. In sostanza, una chiara testimonianza dei profondi cambiamenti in corso nella configurazione politica del Medio Oriente. Un cambiamento di scenario che ha, tra l’altro, consentito alla Siria, dopo gli sconvolgimenti della guerra del passato decennio, di entrare nel nuovo schieramento mediorientale. Il nuovo assetto non ha solo rilievo nell’assetto geopolitico. Le novità, di cui oggi possiamo vedere solo i primi passi, investono i rapporti politici e economici a livello globale, a partire dall’assetto monetario dominato dal Fondo monetario internazionale e, per altri versi, dalla Banca mondiale. Due istituti di carattere globale la cui sede è, non per caso, a Washington. In particolare, il Fondo Monetario interviene con i prestiti nei paesi che hanno problemi di liquidità nei rapporti finanziari internazionali – in sostanza, la grande maggioranza dei paesi. La novità decisa fra i paesi che tendono a uscire dall’orizzonte del Fondo monetario è nella sostituzione di una parte del debito nella valuta appartenente ai paesi con i quali intrattengono rapporti economici e commerciali. In altri termini, una politica diretta a ridurre e, tendenzialmente, a eliminare il ricorso ai prestiti e al conseguente controllo del Fondo monetario sull’economia nazionale. Non sono definiti tempi e modalità, ma l’avvio di un nuovo processo è evidente. L’accordo tra i cinque Paesi – Cina, Brasile, India, Russia e Sud Africa – risale al primo decennio del secolo. Ora il quadro tende a cambiare radicalmente. Il Brasile, dopo la sfortunata parentesi della presidenza Bolzonaro, torna a svolgere un ruolo attivo con Dilma Rousseff al vertice dei BRICS, l’organizzazione che dal prossimo gennaio si estenderà a sei nuovi paesi: Arabia Saudita, Iran, Argentina, Egitto, Etiopia ed Emirati Arabi Uniti. In sostanza, la costituzione di un nuovo blocco, pari a circa la metà della popolazione mondiale, che testimonia i profondi cambiamenti in corso. In questo quadro di grandi cambiamenti a livello globale s’inserisce anche l’Unione europea. Fino a un tempo recente il suo accordo con la Russia si articolava nell’importazione di gas e petrolio e nell’esportazione di prodotti industriali. Meno di due anni or sono l’accordo Merkel-Putin che aveva avuto la consacrazione dei due paesi, in funzione della fornitura di gas russo alla Germania e ad altri paesi europei, andava in questa direzione. Ma i cambiamenti in un corso in un tempo relativamente breve sono stati radicali. L’Importazione del gas russo si è arrestata e il suo prezzo insieme con quello dei derivati del petrolio è aumentato con serie conseguenze sull’intero processo economico. Con la risoluzione adottata all’unanimità a Nuova Delhi, gli Stati Uniti, pur restando su un fronte opposto rispetto alla Russia, mostrano di considerare la Cina come l’avversario effettivo nel confronto strategico a lungo termine. Diversa è la posizione dell’Unione europea dove la linea di politica economica è stabilita dalla Commissione europea con una tendenza recessiva, come ha dimostrato l’ulteriore aumento del tasso d’interesse al livello più alto della storia dell’eurozona. Non è un caso che in questo quadro assistiamo alla riduzione degli investimenti pubblici e della spesa sociale con il risultato di una minore crescita e della permanenza di un’elevata disoccupazione come dimostrano i principali paesi dell’Unione Europea, dall’Italia alla Spagna e alla Francia. A causa del conflitto in corso, della chiusura dei gasdotti e della riduzione delle esportazioni, la crescita economica della Germania – in altre parole, dell’economia più importante nell’Unione europea – è stata negli ultimi due trimestri sotto lo zero, mentre negli altri principali paesi dell’Unione la crescita è inferiore all’1 per cento. Se la guerra ha sempre avuto conseguenze negative sul piano economico e sociale, queste sono particolarmente pesanti per l’Europa occidentale. Riassumendo. Sullo sfondo del conflitto in Ucraina, che ha smosso gli equilibri politici internazionali, stanno avvenendo importanti cambiamenti nell’economia mondiale. Due dati di fatto sono sotto gli occhi di tutti: il rallentamento della Cina e l’ascesa dell’India. Non sono fenomeni congiunturali, ma cambiamenti strutturali. L’economia cinese è in fase di riposizionamento. Il tasso di crescita, pari al 3% nel 2022, dovrebbe attestarsi, secondo le previsioni, attorno al 4,5% nel 2023 e scendere sotto il 4% nel 2024. Valori di tutto rispetto, specie se confrontati con quelli europei, però nettamente inferiori alla media dell’ultimo ventennio, che, escludendo il 2020, anno del Covid, è stata all’incirca dell’8%. È chiaro che un rallentamento, dopo anni di crescita tumultuosa, appare fisiologico. Vi sono tuttavia cause profonde dietro ad esso. Innanzitutto, il calo demografico: nel 2022 la popolazione cinese è diminuita per la prima volta dal 1961, con un tasso di mortalità superiore a quello di natività. La produttività è in frenata, rendendo più difficile il passaggio da un modello di crescita trainato dalle esportazioni alla strategia, voluta dal governo cinese, di maggior sviluppo della domanda interna. La stessa competizione con gli Stati Uniti per la supremazia tecnologica, con il parziale riorientamento del commercio internazionale, sta mettendo a dura prova il sistema industriale di Pechino. Vi sono stati inoltre il caso Evergrande, altri crack finanziari e bolle speculative nella finanza e nell’immobiliare, tipici delle fasi prolungate di boom, che, oltre all’impatto economico, hanno portato a rafforzare il controllo del partito sull’economia, con esiti però poco chiari. Le conseguenze del rallentamento cinese si riverberano sul calo della crescita e del commercio mondiali e possono impattare negativamente su quei Paesi in via di sviluppo, specie africani, che in questi ultimi anni hanno ricevuto da Pechino investimenti e aiuti economici. Anche la famosa Via della seta, tenacemente avversata dagli americani, può entrare in crisi. Al contempo riceve nuovo impulso la strategia di Washington volta a battere la Cina nella sfida tecnologica e a sostituire le importazioni cinesi con quelle provenienti da altre nazioni, soprattutto asiatiche (in particolare Vietnam, Taiwan, Indonesia). Se l’astro cinese sta subendo una fase di appannamento, sale nel continente asiatico la stella dell’India, che in termini demografici ha già superato la Cina, diventando il primo Paese al mondo per popolazione con oltre 1,4 miliardi di abitanti. Anche il Pil indiano sta aumentando dal 2021 a tassi superiori a quelli cinesi. Dopo un balzo del 6,8% nel 2022, la crescita del Paese è prevista confermarsi attorno al 6% sia quest’anno che nel 2024. Il Pil dell’India è già adesso il quinto nel mondo alle spalle di Stati Uniti, Cina, Giappone e Germania, ma nel giro di pochi anni è destinato ad insediarsi al terzo posto, anche se il divario con Usa e Cina appare ancora notevole. La controversa modernizzazione impressa all’India da Narendra Modi sta dando i suoi frutti, anche se a prezzo di forti costi ambientali e dell’allargamento delle già forti disuguaglianze sociali. L’India in questo momento appare molto dinamica anche dal punto di vista politico. Al vertice del G20 di Nuova Delhi, che ha fatto seguito a quello dei Brics di Johannesburg, Modi ha lanciato numerose iniziative economiche. Prima fra tutte l’accordo con Unione europea, Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi per costruire il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa che può diventare un’alternativa alla Via della seta cinese. A questo si devono aggiungere la Global Biofuel Alliance, con Argentina, Bangladesh, Brasile, Italia, Mauritius, Singapore e Stati Uniti, per sviluppare e promuovere i biocarburanti sostenibili e l’accordo del gruppo Ibsa (India, Brasile e Sud Africa) per lavorare con gli Stati Uniti sulla riforma delle banche multilaterali di sviluppo. Modi si sta muovendo a 360 gradi. Da una parte, alla riunione dei Brics ha stretto la mano a Lavrov e Xi Jinping, stando bene attento a non schierarsi contro la Russia nella guerra con l’Ucraina. Dall’altra, all’incontro del G20, dove Xi peraltro non si è presentato, preferendo inviare il primo ministro Li Qiang, non ha esitato a scavalcare l’eterno rivale cinese e a riavvicinarsi agli Stati Uniti, che appaiono sempre coinvolti nei progetti internazionali lanciati alla riunione di Nuova Delhi. In un mondo sempre più multipolare, l’India si accinge a recitare un ruolo molto importante accanto a Stati Uniti, Europa e Cina, ponendosi come faro anche per gli altri Brics. Quelli storici: Brasile, Russia, Sudafrica. E quelli di nuova acquisizione: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi, accolti ora nell’organizzazione. Un aggregato molto disomogeneo sia politicamente sia economicamente, ma che rappresenta il 47% della popolazione e il 37% del Pil mondiali, a fronte di quote rispettivamente del 10 e del 30% rappresentate dal G7. E veniamo alla posizione di Biden che era apparsa già negli ultimi tempi più cauta nei confronti del conflitto in corso tra Russia e Ucrain. Aveva risolutamente negato l’intervento della Nato nel conflitto e aveva espresso, seppure con cautela, il suo disappunto di fronte a quella che avrebbe dovuto essere l’offensiva decisiva dell’Ucraina – aiutata dagli armamenti americani e, in parte europei nello scontro con la Russia ai confini della Crimea. Offensiva non realizzata e, ormai, irrealizzabile. Dopo le decisioni assunte a Nuova Delhi, la domanda che investe l’Europa può essere posta in questi termini: qual è il ruolo dell’Unione Europea in questo rimescolamento delle carte a livello globale? In sintesi, la politica internazionale ha un nuovo centro nel Pacifico e nell’Oceano Indiano, dove si trovano i paesi ricchi di petrolio e di gas, dall’Arabia Saudita ai paesi del Golfo Arabico e all’Iran. In questo contesto assistiamo a una sostanziale emarginazione dell’Europa. Per molto tempo si è potuto ritenere che la Comunità europea si poneva tra i paesi più sviluppati dell’economia mondiale. Oggi l’Unione europea è decisamente al margine dell’economia e della politica globale. Il futuro è sempre incerto ed è imprudente fare previsioni. Ma è difficile non vedere come l’Europa, con la sua politica monetaria, economica e sociale, sia sempre più periferica rispetto ai profondi cambiamenti in corso a livello globale. Cambiamenti scarsamente o per nulla rilevati dai governi che dirigono i paesi europei…

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