Politica: I ricchi e la democrazia. Più aumentano i miliardi, più diminuisce la democrazia. Così i ricchi minacciano la democrazia…

Il divario crescente, tra ricchi e resto della società non è soltanto inutile e immorale. Ha a che fare con il potere e chi lo gestisce al di sopra di ogni controllo. La situazione è ormai largamente riconosciuta. Tra le innumerevoli storie di miseria sepolte in mezzo ai numeri mensili sulla disoccupazione, i resoconti di fame diffusa e le tragiche (sebbene evitabili) morti di lavoratori in prima linea. Negli ultimi due decenni, la popolazione globale di miliardari è aumentata di oltre cinque volte e le maggiori fortune hanno superato i 100 miliardi di dollari… La pandemia del Covid ha rafforzato questa tendenza. Con la diffusione del virus, le banche centrali hanno iniettato nove trilioni di dollari nelle economie di tutto il mondo, con l’obiettivo di mantenere a galla l’economia mondiale. Gran parte di questo stimolo è finito nei mercati finanziari e da lì al patrimonio netto degli ultraricchi. La ricchezza totale dei miliardari in tutto il mondo è aumentata da 5 trilioni a 13 trilioni di dollari in dodici mesi, l’aumento più drammatico mai registrato nell’elenco annuale dei miliardari compilato dalla rivista Forbes. Oltre ad accrescere la ricchezza dei miliardari esistenti, la pandemia ne ha creati di nuovi. Come osserva Ruchir Sharma del Times, la sola Cina ne ha aggiunti 238 al totale globale, circa uno ogni 36 ore. Negli Stati uniti nell’ultimo anno sono arrivati più di cento nuovi miliardari, il numero globale di individui che possiedono un miliardo o più è passato dai 2.000 di qualche anno fa a un record di poco più di 2.700. Alcuni, come il Ceo di Tesla, Elon Musk, hanno visto picchi nella loro ricchezza che rasentano l’incomprensibile (nel caso di Musk da 25 miliardi a oltre 150 miliardi di dollari in un solo anno). Per semplici motivi etici, l’attuale distribuzione della ricchezza sarebbe difficile da difendere per tutti. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, uno spettro che va da istituzioni abbastanza conservatrici come il Fondo monetario internazionale o la leadership del Partito democratico fino alla sinistra socialista concorda sul fatto che la «disuguaglianza» – intesa nel senso più ampio concepibile – è un problema. Per quanto un po’ rozza fosse la formulazione del 99% contro l’1%, Occupy Wall Street è riuscita a diffondere l’idea che una piccola minoranza in cima alla piramide stava accumulando guadagni per sé stessa mentre la maggioranza veniva lasciata indietro. La questione, tuttavia, spesso non viene messa in relazione alla democrazia. Secondo una recente stima dell’economista Gabriel Zucman, la ricchezza dei miliardari negli Stati uniti si sta rapidamente avvicinando a un importo pari al 20% del Pil totale. In tale contesto, la disuguaglianza rimane certamente una chiave di lettura applicabile e importante. Ma si tratta di comprendere tutte le implicazioni della concentrazione della ricchezza. Quando il divario cresce tanto, la ricchezza cessa di riguardare soltanto il modo in cui vengono distribuiti denaro e merci e si trasforma in potere e controllo. A prima vista, la rivoluzione del mercato degli anni Ottanta e Novanta è stata animata dalla presunzione che gli stati assistenziali keynesiani fossero diventati troppo centralizzati e monopolistici: il loro progetto strangolava la prosperità e dava a piccoli quadri irresponsabili della burocrazia pubblici il potere di prendere decisioni chiave su come fondi e le risorse della società dovessero essere stanziati. La soluzione, almeno così si diceva, era semplicemente lasciare che i mercati funzionassero: la loro azione senza vincoli avrebbe diffuso il potere degli individui togliendolo dalle mani dei burocrati non eletti e concesso agli imprenditori che si assumevano il rischio l’opportunità di determinare in modo più efficiente le scelte sugli investimenti cruciali. In questo nuovo contesto, si diceva, la concorrenza avrebbe agito da freno contro la minaccia del monopolio o della concentrazione indebita: la maggior parte dei compensi sarebbero andati a quelli che possedevano le imprese più produttive o che generavano il più alto valore sociale. Se questa favola non era già credibile prima della pandemia, la recente impennata della ricchezza miliardaria rappresenta l’ultimo proverbiale chiodo sulla sua bara. L’osceno aumento della concentrazione della ricchezza degli ultimi anni, dopotutto, non ha avuto nulla a che fare con la produzione o l’utilità sociale ma con la proprietà e l’estrazione delle rendite. I miliardari del mondo non sono diventati più ricchi e più potenti perché le loro imprese sono diventate improvvisamente più produttive, creative o utili al bene comune. Il divario tra la stragrande maggioranza e la piccola minoranza al vertice rimane inutile e immorale. Ma c’è pure il fatto che la crescente concentrazione di ricchezza negli Stati uniti e nel mondo solleva la domanda piuttosto inquietante: cosa succede quando un sistema economico consente a un pugno di plutocrati non eletti di esercitare il potere su una scala così ampia? La risposta, chiaramente, è che gli effetti non sono affatto positivi. La mappa dell’astensionismo e quella della povertà si sovrappongono: è il segno di un sistema che si sta chiudendo sempre di più nella “cerchia dei benestanti”. «Al Sud giovani e poveri non hanno votato», dice Andrea Morniroli del Forum Disuguaglianze Diversità. «Per molti di loro la democrazia è solo “per chi se la può permettere”. Si sentono non visti, non riconosciuti, incapaci di immaginare un futuro. È colpa loro? No. È colpa di una classe politica alla deriva e forse anche del mondo del civismo attivo che non sa più raccontare come stanno le cose». Quelle dell’8 e 9 giugno sono state le prime elezioni della storia della nostra Repubblica in cui sono andati a votare meno del 50% degli aventi diritto. Per l’esattezza il 49,69%. Nel Sud e nelle isole urne ancora più vuote. I dati di affluenza più bassi si registrano nelle Regioni del Mezzogiorno, dove la percentuale di chi ha votato si è fermata al 43,73%, e nelle isole, dove a stento si è arrivati al 37,03%. Il dato peggiore si registra in Sardegna: qui i cittadini che hanno esercitato il diritto di voto sono stati appena il 37%. Nelle circoscrizioni dell’Italia Nord Occidentale la partecipazione al voto ha raggiunto il 55,1%, sopra la media nazionale; nell’Italia Nord Orientale ha votato il 54% degli elettori e al Centro l’affluenza è stata del 52,5%. Ma quando si guarda alla mappa dell’astensionismo e a quella della povertà i punti si sovrappongono: sono sei le regioni italiane in cui ancora si misura un Pil pro capite (a parità di potere d’acquisto) inferiore alla soglia del 75% del valore medio europeo, queste sono Calabria, Sicilia, Campania, Puglia, Sardegna e Molise; quindi, quelle dove l’astensionismo è stato più alto. Chi non ha votato in Europa e in Italia? A maggio di quest’anno l’istituto socioeconomico di ricerca – Censis ha pubblicato il rapporto “Lo stato dell’Unione. Geografia sociale dell’Europa al voto”. Un cittadino su tre, cioè il 34% della popolazione europea (150 milioni di cittadini) ha visto ridursi i propri livelli reddituali. Sono coloro i quali vivono in province periferiche rispetto agli assi produttivi dell’Europa e, a causa di questo inesorabile scivolamento, manifestano di conseguenza il profondo «malessere dei perdenti, che li porta ad allontanarsi anche dal cuore politico europeo», come scrive l’istituto. L’analisi del Censis analizza gli indicatori economici e sociali riferiti alle 242 regioni che compongono il mosaico dei 27 Paesi membri dell’Unione europea: se quindici anni fa (nel 2007) all’Unione europea a 27 Stati era riferibile una quota del Pil del mondo pari al 17,7% del totale, oggi la percentuale si è ridotta al 14,5%. «I territori del declassamento», si legge nella nota che accompagna il rapporto, «si trovano principalmente in Grecia, Italia e Spagna. Di tutti gli europei coinvolti, 4 su 10 sono italiani (il 39,1%). Per quanto riguarda il nostro Paese, la forbice tra i Pil pro capite delle diverse Regioni è amplissima. Si oscilla dal valore minimo del Pil pro capite della Calabria (-40,9% rispetto al dato medio nazionale) al valore massimo di Bolzano (+65,4% rispetto al dato medio nazionale)». Secondo le stime di YouTrend nei comuni dove si votava solo per le europee l’affluenza è stata del 42,2%, mentre dove si votava sia per le europee, che per le amministrative e le regionali, l’affluenza ha raggiunto il 62,8%. E lo stesso partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, che ha consolidato la sua posizione di primo partito del Paese, ha perso però oltre 600mila voto rispetto alle elezioni politiche. Nel Mezzogiorno non votano giovani e poveri. Per le europee hanno votato di più i cittadini residenti nelle Regioni ricche. Molto meno chi vive nelle Regioni povere o nei piccoli centri. La fotografia che l’Istat fa dell’Italia nel 2024 riconferma grandi divari territoriali. Dal punto di vista economico delle 23 province forti in Italia, 21 sono al Nord e 2 al Centro: il 25% delle province più deboli, invece, si trova al Sud, dove l’astensionismo ha registrato tassi più alti. Inoltre, dal 2012 ad oggi la popolazione italiana ha iniziato a ridursi, una tendenza che ha riguardato principalmente il Mezzogiorno (-4,7%). L’astensionismo, sfida per la democrazia futura. «Il quadro generale sull’astensionismo in Italia, a prescindere dai risultati elettorali, e a prescindere che si tratti di elezioni europee, politiche o amministrative, quindi più vicine ai cittadini, ci deve portare a fare una sola riflessione: la democrazia in Italia non sta bene, è davvero malata. E questo si accompagna al fatto che siamo davanti a politiche che in qualche modo certificano la deriva degli ultimi vent’anni in cui si certifica che il nostro è un Paese sempre più diseguale», dice Andrea Morniroli del Forum Disuguaglianze Diversità, tra i fondatori, a Napoli, della cooperativa sociale Dedalus, una realtà che interviene nel campo delle problematiche connesse all’esclusione sociale delle fasce deboli, dell’economia del territorio e dello sviluppo locale. Morniroli non la definisce solo “malata” la democrazia, ma anche: «sotto attacco», spiega. «Siamo davanti a una deriva autoritaria che va dallo svuotamento del Parlamento al ricorso sfrenato ai decreti legge fino all’utilizzo della forza e della violenza contro gli studenti che manifestano nelle piazze». I dati sull’astensionismo registrati al Sud Italia non devono stupire: «Al Sud le persone restano a casa, anche i giovani. Pensano “ormai a che serve il mio impegno di cittadino attivo”. Sono le componenti più fragili per condizione sociale, o sono le persone che vivono ai margini, nelle periferie lontane dai centri», sostiene Morniroli. «Ma per paradosso la componente più fragile della società è quella che sarà più colpita dallo svuotamento della nostra Costituzione». C’è una disaffezione generale alla politica: «le persone non si sentono riconosciute e il non essere riconosciute si somma a tutto il resto: all’avere magari un lavoro e all’essere comunque poveri, ad essere precari, a non riuscire ad uscire dalla povertà, a non avere servizi. La democrazia è diventata una cosa di benestanti. Un ragazzo o una ragazza poveri, che il futuro neanche riescono ad immaginarselo, perché mai dovrebbero andare a votare e fidarsi di chi da sempre ha fatto promesse e non le ha mantenute?». Morniroli però fa anche un’altra osservazione: «Non sono convito che sia solo colpa della classe politica», ammette. «C’è un’incapacità anche nel mondo del civismo attivo di saper raccontare, a chi oggi sceglie di non votare, quanto invece l’esercizio di quel diritto può fare la differenza. Penso, ad esempio, al caso dell’autonomia differenziata». Con l’autonomia differenziata al Sud andrà sempre peggio. «Quando parlo con i genitori dei 300 ragazzi e ragazze che frequentano, nel quartiere San Lorenzo di Napoli, la cooperativa sociale Dedalus», continua Morniroli, «e gli dico che l’autonomia differenziata va fermata, loro mi rispondono: “autonomia che?”. E rispondono così perché non percepiscono quanto questa può danneggiare le Regioni del Sud. E non lo percepiscono perché nessuno gli ha mai spiegato che l’autonomia differenziata, in Campania per esempio, significa non poter avere il tempo pieno nelle scuole, significa aspettare due anni in lista d’attesa prima di essere chiamati per effettuare una visita specialistica, significa anche che non ci saranno più ambulatori perché non avremo abbastanza fondi. Noi dobbiamo ripristinare una narrazione che tenga conto che ci sono aree del Paese, quelle più povere e fragili, che considerano la democrazia solo “per chi se lo può permettere”. Dobbiamo tornare a una narrazione che consenta a quelle aree che si sentono marginalizzate, non viste, non riconosciute dai centri, dalla politica, dobbiamo spiegare perché è fondamentale che loro si attivino» …

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