Politica: Il mondo cambia l’Ucraina. Illusioni perdute. L’Occidente al bivio della storia…

…per saperne di più, sommario del numero 7/24 di Limes dedicato alla guerra in Ucraina

La rimozione della realtà porta l’America e gli alleati europei a dover scegliere fra guerra totale e negoziato al ribasso. L’Ucraina devastata paga un prezzo immenso. Ripercorriamo la marcia verso l’assurdo tramite i documenti americani appena declassificati.

1. Cacciati dal paradiso perduto della pace perpetua e gettati nuovamente nelle potenti correnti della storia, ci accorgiamo d’un tratto di trovarci sull’orlo di sconvolgimenti geopolitici tali da far impallidire le generazioni passate, vissute all’ombra della guerra fredda, e da far vacillare le effimere certezze delle nuove, cresciute nell’illusione della fine della storia. Il mondo sembra inesorabilmente scivolare, contro la nostra volontà e quella dei popoli europei, verso il baratro di una terribile catastrofe. L’infiammarsi del conflitto russo-ucraino nel cuore dell’Europa e l’incapacità di sedarlo, anzi la spensierata corsa ad alimentarlo, fino a ventilare come plausibile, e forse anche come necessario, uno scontro militare con la Russia, nella discutibile presunzione di uscirne vittoriosi, ci restituiscono l’immagine di una classe dirigente che sembra mancare della capacità di comprendere l’effetto cumulativo delle proprie scelte (e dei propri errori) sulla trama degli accadimenti umani. E che oggi si ritrova davanti al bivio di essere sconfessata dagli eventi o marciare verso l’abisso. Nell’incrollabile (e semplicistica) convinzione che «se i princìpi che informano l’azione sono lodevoli, le loro conseguenze non potranno che essere buone» 1. Incurante della possibile irrazionalità di tali decisioni dal punto di vista del loro esito.

Come sapeva Weber, «chi agisce secondo l’etica dei princìpi assoluti si sente responsabile solo del fatto che la fiamma del puro principio (…) non si spenga». Giudicando astrattamente la bontà di un’azione in base alla sua conformità alla legge morale (la propria). E non in base alla considerazione delle prevedibili conseguenze che essa, una volta immessa nel fiume della storia, avrà sul dramma della politica. E pazienza se la fiamma del puro principio finirà con il bruciare il mondo: se dal bene non verrà distillato il bene la responsabilità non sarà di chi ha agito in nome di così alti princìpi, ma dell’irrazionalità del mondo, della stupidità degli altri, della cattiveria dei tiranni. Da abbattere fino all’ultimo uomo ricorrendo alla violenza ultima, per annientare tutti i nemici e porre fine a ogni violenza. Non sorprende perciò che i sacerdoti dell’etica dei valori assoluti – spesso i politici più idealisti – si trasformino con estrema facilità nei profeti millenaristici della guerra totale. Irresponsabilità e immaturità politica che rivelano l’assenza di qualsiasi coscienza del tragico «a cui in verità è intrecciato ogni agire, e in particolare l’agire politico» 2.

2. Così, sbigottiti e impotenti, osserviamo il continente europeo discendere senza controllo e inetto «la scalinata che conduce a un luogo oscuro. All’inizio è una scala bella e ampia, ma dopo un po’ termina il tappeto. Un poco più avanti restano solo scalini di pietra, che poco più avanti si sgretolano sotto i piedi» 3. Dopo due anni di miraggi paghiamo alto il prezzo della verità: svanisce l’incantesimo, si dissolvono i mondi immaginari che la retorica aveva dipinto davanti ai nostri occhi. E la realtà torna a bussare alla nostra porta, come una mano gelida posata sul cuore. La guerra d’Ucraina non finirà come era stato assicurato dai profeti della guerra giusta: ovvero con lo sradicamento del Male e l’umiliazione dell’«ultimo impero d’Europa».

Lo scontro che avrebbe dovuto sancire manu militari il definitivo annientamento delle ambizioni imperiali russe, annegandole nel sangue del nazionalismo ucraino, non condurrà la regione alla Pax Americana, né tantomeno gli ucraini all’agognata prosperità. In una paradossale eterogenesi dei fini, avrà invece finito per accelerare la transizione egemonica che Washington aveva inteso in ogni modo scongiurare. Con buona pace di chi pensa che l’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia abbia prodotto un risultato geopoliticamente apprezzabile, rovesciando a vantaggio dell’Occidente i rapporti di forza mondiali. Come se la forza di una coalizione militare si misurasse dal numero complessivo dei suoi associati, non già dalla sua compattezza e dalla sua efficacia, entrambe inversamente proporzionali alla sua estensione 4. E più profondamente, come se la bontà di un’alleanza si misurasse dalla forza militare teorica che esprime e non dal risultato politico cui conduce o dagli equilibri (o squilibri) che genera. Ma la confusione sugli obiettivi del­la politica di allargamento dell’Alleanza Atlantica, scambiando mezzi con fini, è all’origine stessa della lunga e triste serie di errori che hanno condotto alla guerra russo-ucraina e allo sconvolgimento del continente europeo.

3. L’aver soffiato sul fuoco dello scontro militare, boicottando nell’aprile 2022 qualsiasi accordo diplomatico tra russi e ucraini nell’illusione di poter infliggere una decisa sconfitta militare («strategica») a Mosca, ha condannato l’Ucraina alla più tragica delle fini 5. Immolando gli ucraini sull’altare di una guerra invincibile, che verrà ricordata dalla popolazione autoctona come catastrofe nazionale. Una discesa agli inferi sostenuta fino alla fine con metodico cinismo dalla classe politica euroatlantica. E con incosciente determinazione dalla leadership ucraina, arroccata su posizioni messianiche, come sa chi ha avuto modo di frequentare i bui corridoi dell’ufficio presidenziale 6. Vicolo cieco a cui ha condotto la retorica della prosecuzione a oltranza delle operazioni militari spacciata «unica opzione». Salvo poi trapassare con dialettico sgomento alla dolorosa consapevolezza che la Russia si ostinava a non capitolare, a dispetto della fornitura di moderni sistemi d’arma occidentali; e anzi continuava la sua lenta avanzata, forse per non aver esaurito le pale 7. Rendendo oggi concreto, secondo quanto riferiscono sempre meno sottovoce i vertici militari ucraini, il rischio di un collasso della linea del fronte. Quando non prima un cedimento del fronte interno, esito dello schianto dell’hollywoodiana propaganda di guerra contro il tragico muro della realtà, in una dinamica vagamente reminiscente di italiche vicende (dal famoso «vincere, vinceremo» alla destituzione di Mussolini con mezzo paese invaso) 8.

Carta di Laura Canali – 2024

4. Il risultato è che la distruzione del paese più povero d’Europa e la profondità delle perdite umane e territoriali non hanno fatto che aumentare con ogni ora di guerra artificialmente tenuta in vita dagli «amici» dell’Ucraina. Facendo peggiorare sul campo, anziché migliorare, come da buone intenzioni occidentali, la posizione negoziale di Kiev. Chi all’epoca assicurava trionfante l’ormai imminente sconfitta del «gigante dai piedi d’argilla», non solo non coglieva la differenza tra tattica e strategia, ma dimostrava di fraintendere completamente il senso degli eventi. A partire dalla ritirata delle forze russe intorno a Kiev, a fine marzo 2022, erroneamente interpretata come segno infallibile che l’Ucraina avrebbe potuto vincere la guerra se solo adeguatamente rifornita di burro e cannoni. Presentando alle opinioni pubbliche mondiali la liberazione di Buča, Irpin e degli altri centri della cintura di Kiev come vittoria militare ucraina, e non già come ritiro unilaterale russo nel quadro del perfezionamento politico degli accordi raggiunti in quegli stessi giorni tra le due parti per porre fine al conflitto, di cui tale ritiro era ritenuto precondizione 9. Ma neanche la parola di chi fu testimone diretto di quei negoziati, avendovi partecipato personalmente, Oleksij Arestovyč, all’epoca consigliere presidenziale di Zelens’kyj (e ora suo acerrimo e popolare avversario politico), poteva scalfire l’autoreferenzialità della narrazione a uso e consumo delle opinioni pubbliche occidentali.

5. Almeno sino al contraccolpo dell’annuncio della possibile catastrofe. Rendendo palese che al termine del glorioso viaggio che avrebbe dovuto condurre Kiev nella terra promessa del benessere euroatlantico non solo l’Ucraina non avrà vinto la guerra, ma avrà probabilmente cessato di esistere nella sua forma pre-2022. Territorialmente smembrata, economicamente frantumata e umanamene prosciugata. La fine era inscritta nelle premesse. Come avrebbe potuto lo Stato più povero d’Europa, con meno di 31 milioni di abitanti in diminuzione 10, vincere sul campo militare contro l’impero di cui fino al 1991 era parte, una potenza nucleare di oltre 144 milioni di persone e quasi cinque secoli di storia, non è dato sapere. Certo è che sospendere l’uso del pensiero critico non avrà aiutato l’Ucraina a vincere la guerra, anche se le avrà garantito di perdere la pace (oltre a svariate regioni e centinaia di migliaia di figli). A coloro che seguivano direttamente l’evoluzione degli eventi risultava sin dall’inizio assai arduo, e non del tutto onesto, assecondare la fuga dalla realtà degli amici ucraini, intenti a produrre fantasiosi piani di pace in dieci punti, escludendo per decreto ogni possibilità di negoziato con la Russia 11.

6. Ma il dramma doveva continuare, contro ogni logica e soprattutto contro gli interessi degli stessi paesi europei (Ucraina inclusa), esecutori più o meno consapevoli di linee politiche contrarie ai propri più elementari interessi. L’equilibrio e la stabilità del continente, per esempio. O la salute e la prosperità delle proprie economie, specie se manifatturiere, come quella tedesca o italiana: l’una dipendente dall’altra, ed entrambe dipendenti dalle forniture a basso costo di energia. Tutto annegato nella retorica dei valori e dei princìpi non negoziabili. Riducendo l’arte della politica (e della diplomazia) a una crociata contro gli infedeli, anziché a una inesauribile ricerca del compromesso tra confliggenti interessi. Arte tanto tanto più necessaria quanto più alta è la tensione e la posta in gioco 12. Preferendo seguire «i consigli dell’impazienza e dell’odio», sostenuti dagli slogan più sguaiati ed economici (si pensi al ricorso alla reductio ad Hitlerum al fine di troncare ogni ipotesi di negoziato), anziché quelli della moderazione e della lungimiranza, le cui ragioni hanno però il difetto di essere intricate, non emotive, complesse da argomentare.

A nulla valevano gli ammonimenti di chi ricordava che la mancanza di distanza (ovvero «la capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore: dunque la distanza tra le cose e gli uomini») costituisce uno dei peccati mortali di ogni uomo politico ed è una di quelle caratteristiche che, coltivate presso la nuova generazione di leader, «li condannerà all’inettitudine politica» 13.

Come ricordava un venerando studioso americano, «il vizio peggiore che possa colpire una discussione politica è il dogmatismo che si trincera dietro grandi princìpi e grandi assunti, invece di cercare di capire l’esatta natura delle cose e dell’uomo». Ma del resto, «è più facile immaginare un mondo nuovo piuttosto che cercare di comprendere l’attuale» 14.

7. La negazione delle cause elementari dell’incendio in corso – che ha già indebolito il Vecchio Continente e rischia in ogni momento di dargli fuoco – è del resto la radice delle difficoltà a spegnerlo. Attitudine alimentata dall’ignoranza (o dal sistematico nascondimento) dei processi storici in cui i singoli eventi si collocano e in cui solamente possono essere compresi. Più profondamente, caratterizzata dalla continua negazione del principio di realtà, ovvero dal rifiuto collettivo di accettare l’esistenza di realtà geopolitiche, ambizioni e interessi diversi da quelli contemplati dal punto di vista nordatlantico. Quasi che l’esaltante trionfalismo che all’indomani del crollo dell’Urss accompagnò l’effimero ingresso degli Stati Uniti nel paradiso del potere mondiale, benché presto sconfessato dalla realtà, non volesse tramontare. E il suo spettro continuasse ad attanagliare le vicende del mondo, reiterando meccanicamente i facili slogan di un’epoca ormai passata.

Carta di Laura Canali – 2024

Il senso geopolitico dell’instabilità e della conflittualità vulcanicamente riemerse dopo l’illusione del «momento unipolare» risiede infatti nel fatto che gli Stati Uniti, pur rimanendo uno degli Stati più potenti al mondo, non sono così forti da potersi permettere di «ignorare l’effetto che le loro azioni hanno sulla loro posizione tra le altre nazioni» 15. Come invece hanno immaginato di poter fare negli ultimi trent’anni, continuando a interpretare euforicamente (ed erroneamente) la fine della guerra fredda come definitivo superamento del multipolarismo e fine della storia. Non volendo rinunciare – almeno in Eurasia – al titolo di unica superpotenza. Fino ad arrivare all’anticamera dello scontro militare diretto con la Russia.

8. L’attuale conflitto russo-americano, combattuto (finora) per semiprocura sulla pelle degli ucraini, è infatti null’altro che lo strascico dell’implosione dell’Unione Sovietica e dei suoi effetti sull’equilibrio di potenza europeo 16. Nacque allora, negli ambienti del dipartimento di Stato Usa, l’idea di «allargamento democratico» quale strategia per colmare il vuoto di potere lasciato dall’inaspettato crollo dell’Unione Sovietica. A cui fu letale il «nuovo pensiero» di Gorbačëv, ma con cui l’America di George H. Bush, chiuso il libro della guerra fredda, aveva immaginato tra il 1989 e il 1991 di dare vita a un «nuovo ordine internazionale» di cooperazione sovietico-americana 17.

La scomparsa del Patto di Varsavia (1° luglio 1991) e l’implosione dell’Urss (25 dicembre 1991), liberando gli Stati dell’Europa orientale dall’egemonico abbraccio russo, contribuivano però a creare in quella zona del Vecchio Continente una terra di nessuno. «La fascia di sicurezza strategica russo-sovietica – ritenuta fondamentale dalla diplomazia di Mosca sin dagli anni Trenta (e dall’impero russo sin dal XVII secolo, n.d.r.) – spariva, lasciando come unico contrappeso in quel cruciale teatro geopolitico un trattato siglato a Mosca il 12 settembre 1990 circa lo status dell’ex Rdt nella Germania unificata» 18.

Le inattese praterie di potere che si aprirono in quel momento per gli Stati Uniti furono immense. L’America di Clinton pensò che il modo migliore di stabilizzare la nuova realtà strategica fosse di allargare la propria egemonia fino ai confini dell’Eurasia, dall’Elba agli Urali. Presumendo che il futuro potesse essere una semplice estensione del passato. Mossa dall’irresistibile ambizione di plasmare lo spazio post-sovietico a immagine e somiglianza della visione americana dell’ordine. Creando in Europa centro-orientale una rete di democrazie di mercato (o «sistema di sicurezza collettiva a guida statunitense» per citare la dottrina Wolfowitz) modellate sull’idealtipo della Città sulla collina. Con l’obiettivo di inglobare l’ex impero del Male nell’ordine internazionale statunitense attraverso l’allargamento della Nato, chiave di volta della Pax Americana in Europa. Incurante delle obiezioni sollevate sin dall’inizio dalla Russia post-sovietica, amica di Washington ma erede di un antico impero, recalcitrante ad accettare passivamente la perdita non semplicemente di profondità strategica, ma (in prospettiva) della possibilità stessa di esprimere una forma di autonomia politica e strategica. Esplicito obiettivo del disegno concepito a Washington 19.

Come illustra la prima dottrina strategica licenziata dal dipartimento di Stato all’indomani della dissoluzione dell’Urss, fraintesa come fine della storia. Dove si indicava come obiettivo cruciale per l’America il mantenimento del proprio «potere incontrastato» in Eurasia, impedendo «il riemergere di qualsiasi rivale» che ambisse a dominare «regioni per noi critiche» 20. Pacificando il continente mediante lo sradicamento della radice del Male: il concetto stesso di politica di potenza in Europa. E la conseguente liquidazione del sistema multipolare, fonte inesauribile di conflittualità. Facendo confluire le nuove realtà statuali emerse dalla balcanizzazione dell’Urss nel placido lago della «zona democratica di pace» sotto egemonia americana: fine della storia.

9. Ma l’intera impalcatura geopolitica forgiata a Washington si fondava sul presupposto – dato come assiomatico – di poter portare la Russia, redenta dal socialismo reale, nell’ovile della «comunità di difesa delle nazioni democratiche» a guida statunitense. Cioè nella Nato, dal 1949 pilastro su cui poggia l’impero europeo dell’America 21.

Carta di Laura Canali – 2024

Gli Stati Uniti immaginavano possibile cooptare nel nuovo ordine a guida americana l’antico nemico. In perfetta analogia a quanto accaduto dopo la seconda guerra mondiale, quando la Germania sconfitta fu cooptata all’interno della neo-costituita Alleanza Atlantica (vedi Pro memoria in appendice).

«La sfida per la Nato nella prossima generazione – contenere e cooptare la potenza russa – è simile a uno degli scopi cardine della Nato nell’ultima generazione – integrare la Germania quale leader responsabile della comunità transatlantica», si legge testualmente in un memo segreto (ora declassificato) del dipartimento di Stato risalente al 1993. In cui era già articolato in dettaglio un processo di espansione dell’Alleanza Atlantica in quattro fasi, di cui l’ultima prevedeva entro il 2005 l’ingresso nella Nato di Ucraina, Bielorussia e Russia. Per impedire così che Mosca riemergesse «come una minaccia alla stabilità europea» 22.

In quella lettura ottimistica degli eventi si annidava però un equivoco di fondo: il trionfo finale degli Stati Uniti nella guerra fredda e il collasso dell’impero sovietico venivano infatti percepiti a Washington in termini ideologici anziché geopolitici, e ritenuti quindi una conferma delle verità che l’America accreditava come verità sul mondo. Donde il concetto stesso di vittoria associato al crollo dell’Urss, che in realtà fu un volontario auto-toglimento ad opera di Gorbačëv. Il quale al fine di essere coerente con lo spirito della perestrojka, favorire il disarmo (unilaterale) e promuovere il riavvicinamento all’Occidente, aveva finito per rinunciare senza contropartite agli assetti europei ottenuti dall’Urss durante la seconda guerra mondiale e rimasti invariati per tutta la durata della guerra fredda. Come dimostra, ad esempio, il ritiro unilaterale di 300 mila militari, 200 mila civili, 5 mila carri armati e 1.700 aerei dalla Germania orientale in base agli accordi che avrebbero sancito la riunificazione tedesca, in cambio della promessa americana di non allargare la Nato. Dissolvendo così l’Unione Sovietica mentre ambiva a renderla uno dei pilastri della nuova architettura di sicurezza globale.

10. In questo contesto, lo scontro tra il disegno americano dell’ordine e le ripetute obiezioni russe, risalenti già al primo periodo della lunga e travagliata presidenza di Boris El’cin (1991-99), allorché «emersero nella Russia post-sovietica obiezioni considerevoli circa l’allargamento della Nato a est» 23, è il terreno in cui affondano le radici della discordia e del conflitto, di cui la guerra in corso è manifestazione. Perché l’America inebriata dall’illusione di poter essere «unica superpotenza» non ha da allora ritenuto di dover prendere in considerazione le perplessità e le preoccupazioni espresse da Mosca. Ritenendole non solo infondate, ma soprattutto irrilevanti. Convinta che «gli attriti tra le nazioni siano più spesso il risultato di fraintendimenti o malvagità [individuali] che di contrasti dovuti a interessi e valori [differenti] ritenuti validi da ciascun contendente»; e che nel caso gli avversari «si possano schiacciare o che crolleranno a causa delle loro stesse dinamiche interne» 24.

Per questo il processo di realizzazione del disegno strategico americano non si è arrestato. Nemmeno di fronte ai ripetuti e sempre più espliciti niet di Mosca (ultimo nucleo di contropotere nella regione), di cui diplomatici e politici americani erano perfettamente consapevoli: «Le aspirazioni Nato dell’Ucraina e della Georgia non solo toccano un nervo scoperto in Russia, ma generano serie preoccupazioni sulle conseguenze per la stabilità nella regione. Non solo la Russia percepisce l’accerchiamento e gli sforzi [americani] per minare la sua influenza nella regione, ma teme anche conseguenze imprevedibili e incontrollate che intaccherebbero seriamente gli interessi di sicurezza russi. Gli esperti ci dicono che la Russia è particolarmente preoccupata che le forti divisioni in Ucraina rispetto alla prospettiva della adesione alla Nato, con gran parte della comunità etnica russa contraria all’adesione, potrebbero generare una grande spaccatura (interna, n.d.r.), degenerando in violenza, o peggio, in guerra civile. In tale eventualità, la Russia si troverebbe a dover decidere se intervenire; una decisione che la Russia non vuole dover affrontare» 25.

Eppure i neoconservatori ramificati negli apparati di Washington erano disposti, pur di realizzare il loro disegno, a intervenire per correggere la realtà quando questa non si adattava alla loro luminosa visione. Con interventi sempre più invasivi all’interno dei paesi dell’ex impero sovietico (e non solo) finalizzati a «costruire la democrazia» con complesse operazioni di ingegneria sociale abbondantemente finanziate da Washington (come l’Operazione TechCamp, che tra il 2012 e il 2013 ha preceduto in Ucraina lo spodestamento di Janukovyč 26), «rivoluzioni colorate» – cambi di regime.

Se necessario, anche a costo di destabilizzare interi paesi (vedi Ucraina) portando la violenza al suo acmé, nella convinzione (tipica dei neoconservatori americani à la Kagan) che con una spintarella l’America potesse aiutare la Provvidenza a fare più velocemente il suo corso. Rimuovendo gli ultimi ostacoli alla piena realizzazione dei suoi disegni, coincidenti con quelli americani: la creazione di un impero della Libertà dall’Atlantico agli Urali che avrebbe reso eo ipso impossibile futuri conflitti. Incuranti degli squilibri, delle contraddizioni e degli effetti destabilizzanti prodotti dalla successione di azioni intraprese per realizzarli.

Carta di Laura Canali – 2024

11. Per questo la guerra sostenuta dall’America in Ucraina non è tanto una lotta contro la Russia, quanto piuttosto contro la stessa realtà, recalcitrante a corrispondere ai desideri americani. Washington si ostina a negare la validità delle preoccupazioni e delle ambizioni di potenza (degli altri) «come forze umane esistenti e inalterabili, né buone né sbagliate». Cercando quindi «la loro riforma o la loro repressione», anziché «il loro punto di massimo equilibrio» 27. Nella certezza che quando la democrazia e la benigna influenza americana si siano stabilite ovunque, il sipario calerà sull’ultima rappresentazione del gioco della politica di potenza.

Il sogno della «zona democratica di pace», superiore ordine mondiale fondato sull’egemonia della nazione indispensabile, si traduce così nell’intolleranza per l’esistenza di altri centri di potere, visioni e ambizioni. L’America vorrebbe trascendere la dialettica storica e il conflitto, fare ordine, forgiare stabilità: ma poiché l’affermazione di un’egemonia incontestata richiede l’attivo annientamento di ogni contendente (ovvero del pluralismo internazionale), la realizzazione delle sue ambizioni e dei suoi valori si traduce inevitabilmente nella loro continua negazione: ovvero nella proliferazione del conflitto con sempre nuovi nemici (qualsiasi entità che non si pieghi ai suoi progetti). Eterna autocontraddizione che consuma la potenza egemone, accelerandone il trapasso. Spingendola ad alimentare, senza riuscire a immaginare un’alternativa, uno scontro militare all’ultimo sangue nel cuore del continente. Facendo saltare il possibile accordo che nell’aprile 2022 avrebbe potuto stabilizzare politicamente la regione. Giacché un’architettura di sicurezza negoziata direttamente tra Kiev e Mosca avrebbe comportato il reinserimento della Russia nell’equazione geopolitica europea (di cui sarebbero stati garanti anche, ma non esclusivamente, gli Stati Uniti). Vanificando gli sforzi fino ad allora profusi con tenace sistematicità per tenere, anche dopo la fine della guerra fredda, la Russia fuori, la Germania sotto e l’America dentro. Scopo e ragion d’essere della Nato sin dalla sua fondazione. Non si spiega altrimenti perché gli americani abbiano sabotato gli accordi di Istanbul adducendo come ragione – secondo quanto confermato dall’autorevole rivista Foreign Affairs – quella di non essere disposti a «garantire militarmente» l’Ucraina da eventuali «future aggressioni». Pur essendo pronti a sostenere militarmente l’Ucraina fino all’ultimo ucraino a guerra in corso. Un controsenso, che si spiega solo alla luce della volontà di scongiurare che la Russia potesse tornare «dentro», spingendo gli americani «fuori» dal ruolo di garanti assoluti degli equilibri europei. Bollando con il marchio d’infamia dell’appeasement ogni richiamo alla diplomazia. Dimenticando che l’appeasement, cioè l’arte di fare concessioni limitate a potenziali competitori, riducendo il numero di sfidanti da fronteggiare contemporaneamente, è stato uno dei segreti della longevità dell’impero britannico 28.

Il risultato è che anziché riconoscere come un dato di fatto l’esistenza di divergenti interessi e prospettive nazionali, provando a scendere nella concretezza del loro confliggere, con l’obiettivo di gestirli e di cercare le soluzioni meno sconvolgenti per la stabilità dell’ordine internazionale (e per la vita dei popoli), l’America (con al traino i suoi clientes europei) continua a cimentarsi in una fallimentare politica fondata su princìpi di irrealtà, spacciati come valori ultimi e universali. Usati come giustificazione (e spesso maschera) delle proprie ambizioni di potenza. Immaginando di poter trasformare d’un colpo (e spesso con un colpo di pistola) la vita internazionale a immagine della visione americana del mondo. Anche a costo di ricorrere a un uso pervasivo e massiccio della violenza per tentare di imporre – senza riuscirci – tale modello. Ma al contrario disseminando entropia e disordine globale: eterogenesi dei fini di una politica imbevuta di idealismo che vorrebbe plasmare il migliore degli ordini possibili. E che sta accelerando con le sue stesse mani la transizione egemonica che voleva scongiurare. Compattando un fronte anti-occidentale intorno all’improbabile ma temibile blocco sino-russo, cui va coagulandosi il risentimento del «Sud Globale» nei confronti di decenni di hybris americana.

12. Un grande pensatore politico americano ha scritto: «Tutte le nazioni sono tentate di presentare le proprie aspirazioni particolari come fini morali universali. (…) Fare corrispondere, senza esitazioni, un particolare nazionalismo con i disegni della Provvidenza è però moralmente indifendibile, poiché si tratta di quello stesso peccato di orgoglio dal quale i tragici greci e i profeti biblici avevano messo in guardia governanti e governati. Tale equazione è perniciosa anche politicamente, poiché genera una distorsione di giudizio che, nella cecità di un fanatismo da crociata, distrugge nazioni e civiltà in nome di un principio, di un ideale, o perfino in nome di Dio stesso. Mentre è proprio il concetto di interesse definito in termini di potere che ci salva sia dall’eccesso morale che dalla follia politica. Se consideriamo tutte le nazioni, inclusa la nostra, come entità politiche che perseguono i loro rispettivi interessi definiti in termini di potenza, siamo in grado di rendere giustizia a tutte in un duplice senso: possiamo giudicare le altre nazioni come giudichiamo la nostra e di conseguenza, mettere in atto politiche che rispettino gli interessi altrui e al tempo stesso proteggano e promuovano i nostri» 29.

Dopo oltre due anni di conflitto sostenuto artificialmente in vita, l’Europa è al bivio. La strategia occidentale – puntare sulla vittoria militare sul campo, rifiutando qualsiasi negoziato (cioè compromesso) con la Russia – si è rivelata miope e irrealizzabile. Due strade si parano ora davanti: quella dell’accordo (e «la prova migliore della giustizia di qualsiasi accordo è che non soddisfi del tutto nessuna delle due parti» 30) o la ripida discesa agli inferi. Tertium non datur. Ragione suggerisce che tentare di provare la bontà dei propri princìpi a costo di distruggere la civiltà a cui li si vorrebbe applicare non è auspicabile. Se, come ci auguriamo, alla fine il principio di ragione prevarrà, la guerra d’Ucraina sarà stata per l’Occidente il traumatico risveglio al principio di realtà. Riportandolo cioè all’evidenza «che ci può essere uno Stato, o più di uno Stato, che tutta la restante comunità mondiale insieme non è in grado di indurre coercitivamente a seguire una linea d’azione a cui esso è violentemente avverso» 31. Con ciò catapultandoci dritti nel regno della dimenticata arte della diplomazia, da cui negli ultimi trent’anni (se non da sempre) l’America ha tentato inutilmente e dispendiosamente di fuggire. La storia però suggerisce che una simile fuga è impossibile, e la ragione che non è desiderabile. Perché politica è relazione.

E’ sempre tempo di Coaching! 

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: riceverai una risposta oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuita

Note:

1. G. Kennan, American Diplomacy [1951], Chicago 2012, The University of Chicago Press, p. 51.

2. M. Weber, La politica come professione, Milano 2009, Oscar Mondadori, pp. 112 e 122.

3. W.S. Churchill citato in A. Roberts, Churchill. La biografia, Torino 2019, Utet, p. 570.

4. Cfr. G. Kennan, op. cit., p. 106. «La legge dei ritorni decrescenti pesa tanto sulle possibilità di azione militare multilaterale da rendere altamente dubbio il fatto che la partecipazione di piccoli Stati possa davvero rafforzare l’abilità delle grandi potenze di assicurare la stabilità della vita internazionale».

5. In Italia Limes aveva rivelato già un anno fa le ragioni fondamentali dietro il fallimento degli accordi russo-ucraini del 2022, cfr. J. Florio, «Geopolitica come relazione (apologia di Diodoto)», Limes 5/2023, «Lezioni ucraine», pp. 95-105. Come poi autorevolmente confermato, più recentemente, da Foreign Affairs, cfr. S. Charap, S. Radchenko, «The Talks That Could Have Ended the War in Ukraine. A Hidden History of Diplomacy That Came Up Short – but Holds Lessons for Future Negotiations», Foreign Affairs, 16/4/2024. Vedi anche A. Troianovski, A. Entous, M. Schwirtz, «Ukraine-Russia Peace Is as Elusive as Ever. But in 2022 They Were Talking», The New York Times, 15/6/2024.

6. Come ha raccontato nel suo reportage S. Shuster, «Nobody Believes in Our Victory Like I Do. Inside Volodymyr Zelensky’s Struggle to Keep Ukraine in the Fight», Time, 30/10/2023.

7. Cfr. tra gli altri D. Raineri, «Mancano munizioni, russi all’assalto del nemico con le pale», la Repubblica, 6/3/2023.

8. J. Dettmer, «Ukraine is heading for defeat», Politico, 17/4/2014.

9. Le truppe russe iniziarono a ritirarsi dall’area di Kiev il 29 marzo 2022, lo stesso giorno in cui le delegazioni ucraina e russa trovarono a Istanbul un accordo di massima sui termini del trattato di pace. Cfr. «Putin says Russia withdrew army from Kyiv because it was asked», Ukrainska Pravda, 29/7/2023. Vedi anche, da parte russa, «President of Russia Vladimir Putin’s speech at the meeting with senior staff of the Russian Foreign Ministry», The Ministry of Foreign Affairs of the Russian Federation, 14/6/2024.

10. E. Libanova, «Ukraine’s Demography in the Second Year of the Full-Fledged War», Wilson Centre/Kennan Institute.

11. Cfr. «Zelensk’yj firma il decreto: “Impossibile negoziare con la Russia”», Ansa, 4/10/2022.

12. «La diplomazia è stata inventata proprio per risolvere situazioni di conflitto e di tensione, non per assaggiare piatti esotici a ricevimenti di gala». Il motto, di un certo sarcasmo, si deve al ministro degli Esteri russo Lavrov in risposta al collega italiano Di Maio, il quale dichiarava il 24 febbraio 2022 che «non possono esserci nuovi incontri bilaterali con i vertici russi finché non ci saranno segnali di allentamento della tensione, linea adottata nelle ultime ore anche dai nostri alleati e partner europei». Cfr. il pregevole contributo di P. Fondi, «Il sonno della diplomazia genera mostri», il Mulino, 22/3/2024.

13. M. Weber, op. cit., p. 113.

14. W.G. Sumner, «Democracy and Responsible Government», in The Challenge of Facts and Other Essays, New Haven 1914, Yale University Press, pp. 245-246.

15. H.J. Morgenthau, Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Bologna 1997, il Mulino, p. 39.

16. Sui tentativi di isolare la crisi ucraina dalla complessità geostrategica in cui ha preso origine e dove si è sviluppata, mistificandone capziosamente la portata storica e politica, ci siamo già espressi altrove e non vale soffermarsi.

17. A. De Robertis, «La Nato e la sfida della Russia», in «Atti dell’VIII Convegno di Studio sull’Alleanza Atlantica», Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche, n. 8/2015, Università Cattolica del Sacro Cuore (a cura di M. De Leonardis).

18. G. Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Roma 2021, Carocci, p. 259.

19. Su questi aspetti ci permettiamo di rimandare a J. Florio, «Pensieri mossi dall’ambizione. L’Occidente e la guerra in Ucraina», Limes 2/2023, «La Polonia imperiale», pp. 141-158. Vedi soprattutto S. Savranskaya, T. Blanton, «NATO Expansion: What Gorbachev Heard: Declassified documents show security assurances against NATO expansion to Soviet leaders from Baker, Bush, Genscher, Kohl, Gates, Mitterrand, Thatcher, Hurd, Major, and Woerner», National Security Archives, George Washington University, 12/12/2017.

20. Cfr. «1992 Defense Planning Guidance 1994-1999», Washington, National Archives, 26/2/2008.

21. Ibidem: «We must also encourage and assist Russia, Ukraine and the other new republics of the former Soviet Union in establishing democratic political systems and free markets so they too can join the democratic “zone of peace”».

22. «Strategy for NATO’s Expansion and Transformation», U.S. Department of State, 7/9/1993.

23. G. Cella, op. cit., pp. 270-271.

24. H. Kissinger, Leadership, Milano 2022, Mondadori, p. 271. Secondo questa rudimentale filosofia della storia, capovolgimento dell’antica concezione dialettica greca secondo cui «polemos è padre di tutte le cose» e «l’armonia invisibile» unisce gli opposti, a essere causa dei conflitti sono «le macchinazioni delle autocrazie, e in nessun caso le contraddizioni intrinseche tra differenti interessi o aspirazioni nazionali».

25. Telegramma riservato in partenza da Mosca il 1° febbraio 2008 e firmato da William Burns (all’epoca ambasciatore Usa in Russia e ora direttore della Cia): «Nyet means nyet: Russia’s NATO Enlargement Redlines», Amembassy Moscow, 1/2/2008.

26. L’ultima conferenza TechCamp prima degli eventi di Jevromajdan si è tenuta il 14-15 novembre 2013 presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Kiev. «Come parte del progetto TechCamp, l’ambasciata degli Stati Uniti ha addestrato rivoluzionari che potrebbero organizzare manifestazioni e lavorare per rovesciare il governo. Il progetto è stato supervisionato dall’ambasciatore statunitense in Ucraina Geoffrey Pyatt. I corsi sono stati tenuti da cittadini statunitensi e dipendenti della missione diplomatica (…) descrivendo come i social network sono stati utilizzati per organizzare e controllare le rivolte di strada in Egitto, Tunisia e Libia». Così denunciava pubblicamente (e profeticamente) il 20 novembre 2013 dagli scranni della Verkhovna Rada (parlamento ucraino) il deputato Oleg Tsarev. Vedi anche il telegramma Amembassy, 9/10/2012; «Over one hundred civil society leaders from across Ukraine and Belarus received hands-on training from U.S. as well as international technology experts as part of TechCamp Kyiv held September 12-13, 2012», Hillary Clinton Email Archive.

27. G. Kennan, op. cit., p. 56.

28. S.M. Walt, «Appeasement Is Underrated. Rejecting diplomacy by citing Neville Chamberlain’s deal with the Nazis is a willfully ignorant use of history», Foreign Policy, 29/4/2024. Vedi anche P. Kennedy, Strategy and Diplomacy 1870-1945, New York 1989, HarperCollins.

29. H.J. Morgenthau, op. cit., p. 19-20.

30. W.S. Churchill, in A. Roberts, op. cit., p. 434.

31. G.F. Kennan, op. cit., pp. 106-107.

 

0

Aggiungi un commento