Politica: il neoliberismo nel “cul de sac” di un’idea di modernità basata unicamente sull’azione individuale. Il neoliberismo ha cambiato la democrazia, sostituendo il cittadino con il consumatore e l’economia alla politica. Oggi è in profonda crisi e l’alternativa è reazionaria…

Parte prima…

Il neoliberismo, diffusosi a partire dagli anni Ottanta del ‘900 nel mondo, ossia l’ideologia da cui esso è ispirato, è considerato la dottrina economica che forgia e modella in profondità ogni aspetto del mondo a noi contemporaneo. Come fosse una cornice fissa del quadro in continua evoluzione che raffigura il mondo contemporaneo con i suoi molteplici eventi, di cui siamo di volta in volta spettatori, beneficiari o vittime. Poiché l’evoluzione della dottrina neoliberista ha permesso al relativo modello di sviluppo di conquistare il primato, non solo in campo economico ma anche in ambito politico e sociale, l’analisi di tale fenomeno risulta particolarmente complessa e sensibile a diverse interpretazioni. Questa riflessione, si sviluppa sull’entità del legame tra il modello di sviluppo neoliberista e il sistema democratico, per mostrarne la contraddizione crescente e sempre più diffusa tra i due modelli. A partire dal riapparire (in realtà non era mai scomparsa) della lotta di classe. Nella dimensione strategica del neoliberismo, la lotta di classe è ritenuto, l’aspetto più importante della sua ideologia. Per farla semplice e breve prendiamo il punto di vista adottato dai ceti situati ai vertici della società proprio per spiegarne l’origine dell’ideologia. Sebbene garantisse la stabilità economica e sociale necessaria durante il secondo dopoguerra, alla base dell’ordine keynesiano, com’è noto, vi era un’inedita partecipazione della forza lavoro alla gestione dell’economia nazionale: il principio di ridistribuzione della ricchezza veniva così realizzato a  parziale discapito dei ceti che erano stati dominanti fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale. In quasi tutti i paesi [a capitalismo avanzato] una delle condizioni previste dall’assetto del dopoguerra era che si ponessero dei freni al potere economico delle classi alte e si concedesse alla forza lavoro una fetta assai maggiore della torta economica. Per di più, i principi su cui si basava il keynesismo sembravano avvicinarsi politicamente alla socialdemocrazia. Il successo economico che tale sistema riscosse, si rifletteva dunque anche in campo politico, dove la “Sinistra” veniva vista con maggiore favore e guadagnava terreno  in Europa e perfino negli Stati Uniti. Tuttavia, la causa di maggior preoccupazione per le élite economiche non era tanto la realizzazione del sistema keynesiano, quanto il suo deterioramento. Fintantoché il sistema garantiva una crescita stabile, la divisione più egualitaria della “torta economica” era accettabile, poiché la “fetta” corrispondente alle classi abbienti rimaneva pur sempre notevole e maggioritaria. Tuttavia, quando tale presupposto venne a mancare, le élite videro minacciate in modo concreto la loro posizione nella società. Quando negli anni Settanta la crescita si interruppe, i tassi di crescita reali divennero negativi e dividendi e profitti divennero generalmente minori, allora le classi alte si sentirono ovunque minacciate. La crisi economica avrebbe infatti rappresentato l’elemento di svolta, che spinse i ceti elitari ad agire. Dovevano muoversi con decisione, se volevano evitare di essere annientate politicamente ed economicamente. Pertanto, per i ceti elitari era estremamente necessario un progetto in grado di restaurare una stabile crescita economica nazionale, un piano capace di garantire la conservazione del potere, una strategia per legittimare di fronte all’opinione pubblica i loro privilegi esclusivi. L’origine del neoliberismo affonderebbe, così, le sue radici in questo contesto. Nonostante ci sia chi pensasse al neoliberismo come ad una dottrina di stampo ideologico “spontanea” e “disinteressata”, alla fine ciò che è emerso sempre più nettamente nell’osservazione e analisi del Neoliberismo e della sua diffusione globale che lo stesso non fu altro che un raffinato stratagemma “inventato” dalle classi abbienti delle società capitaliste per dissimulare la conservazione di un potere oligarchico, esclusivo e per niente egualitario. È possibile quindi oggi, interpretare la neo-liberalizzazione come un progetto finalizzato a una riorganizzazione del capitalismo internazionale, oppure come un progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale e ripristinare il potere delle élite economiche. Io sostengo, che ha prevalso nei fatti il secondo di questi obiettivi. È curioso che il termine “neoliberismo”, negli ultimi tempi tanto usato, sia diventato così popolare proprio quando chi si occupa di neoliberismo sta discutendo di una sua eventuale fine. Sarebbe bello poter dire che è come quando capisci il senso di un film negli ultimi cinque minuti, ma purtroppo bisogna ammettere che questo film sta andando avanti da almeno quarant’anni, e a mio modesto parere si è ancora ben lontani dalla conclusione. Il neoliberismo è infatti un’ideologia politica e una teoria economica nata negli anni Ottanta, del secolo scorso, che ha definito e tuttora definisce gli sviluppi del capitalismo. È un’ideologia subdola e pervasiva, perché riesce a presentarsi come antiideologica (non di destra- non di sinistra), e condiziona non solo l’andamento dei mercati, ma invade anche le nostre vite private, influenzando il nostro modo di pensare, lavorare, vivere. Come tutte le teorie che si rispettino, anche il neoliberismo ha il suo ideologo di riferimento, Friedrich Von Hayek, Premio Nobel per l’economia nel 1974 e autore, tra gli altri, del saggio “la società libera” (1960). Secondo Von Hayek, la società si regge solo e unicamente sull’azione individuale. Ogni persona, infatti, agisce perseguendo un proprio fine e ogni tentativo di dirigere o limitare le sue azioni, come pretende di fare l’economia pianificata, è destinato al fallimento. La società si mantiene assieme per una sorta di eterogenesi dei fini, secondo un ordine che, a parere di Von Hayek, non è il risultato di una progettazione umana, ma si autogenera spontaneamente. Ne consegue che un controllo dall’alto, come quello incarnato dallo Stato, non è necessario. Ovviamente non si tratta di anarchia: quest’ordine è infatti regolato dalla proprietà privata che, oltre a essere il fondamento della civiltà, è anche una sorta di argine morale, “la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti”, scrive Von Hayek. Racconta la leggenda che Margaret Thatcher, in una delle sue prime riunioni come leader dei Tory britannici nel 1975, tirò fuori dalla borsetta una copia de “La società libera” per poi scagliarla sul tavolo dicendo: “Questo è tutto quello in cui crediamo”. La prima ministra britannica, assieme al presidente statunitense Ronald Reagan, incarna infatti pienamente lo spirito del neoliberismo: privatizzazioni, deregolamentazione e tagli alla spesa pubblica sul versante economico, conservatorismo su quello politico. Una dottrina come questa si fonda sull’iniziativa privata e sul progressivo indebolimento del controllo dello Stato, come nell’utopia (o forse sarebbe meglio dire distopia) di Von Hayek, un laissez-faire portato alle estreme conseguenze dove ognuno è artefice del proprio destino. “Il neoliberismo considera la competizione la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Ridefinisce i cittadini come consumatori, le cui scelte democratiche si esercitano tramite l’acquisto e la vendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Sostiene l’idea che “il mercato” apporti dei benefici che non potrebbero mai essere raggiunti con la pianificazione”. Il neoliberismo nacque quindi con la crisi delle socialdemocrazie progressiste che si ispiravano in linea di massima ai principi socialisti e alle teorie di John Maynard Keynes e che si basavano sul riformismo economico e sulla necessità dell’intervento pubblico, in particolare per la creazione di un welfare state. Le socialdemocrazie vacillarono a livello mondiale alla metà degli anni Settanta, in seguito alla crisi del petrolio del 1973, quando i prezzi del greggio aumentarono improvvisamente con la guerra del Kippur, che vide Siria ed Egitto contro Israele. La crisi economica fu l’occasione perfetta per i governi Thatcher e Reagan per dimostrare il fallimento delle politiche di nazionalizzazione e affermare la necessità dell’impresa privata. Alla guida dell’esecutivo britannico dal 1979 al 1990, Thatcher privatizzò la compagnia aerea nazionale e le principali aziende di telecomunicazioni, energia e acciaio del Paese, ma soprattutto varò il cosiddetto “Big Bang Act” che deregolamentò completamente la borsa inglese, aprendo la strada alle future speculazioni finanziarie. Questi profondi cambiamenti risollevarono i conti dello Stato ma non furono privi di vittime collaterali: il thatcherismo distrusse la classe lavoratrice inglese, annientò i sindacati e inasprì le disuguaglianze sociali. Politiche simili furono adottate anche dal presidente americano Reagan, in carica dal 1981 al 1989, e dalla sua “Reaganomics” ispirata alle teorie di Milton Friedman. Non bisogna poi dimenticare, nel novero delle imprese del neoliberismo, la dittatura di Pinochet in Cile dopo il golpe dell’11 settembre 1973 con la complicità della presidenza Nixon. A Santiago i “Chicago Boys” di Friedman, mentre i militari soffocavano nel sangue ogni forma di opposizione al regime, si occuparono della progressiva privatizzazione di tutti i servizi essenziali, accendendo un conflitto sociale che ancora oggi è in corso. Non deve stupire la storia cilena: il neoliberismo ha infatti un impianto fortemente antidemocratico. Lo stesso Friedrich Von Hayek considerava infatti la democrazia rappresentativa un ostacolo alla realizzazione dell’individuo, se non proprio antitetica all’esercizio della proprietà privata. E infatti l’economista fu un fervido sostenitore della dittatura di Pinochet: “Nell’era moderna ci sono stati molti esempi di governi autoritari in cui la libertà personale era più al sicuro che nella democrazia”. Forse le 40mila vittime del regime cileno non la penserebbero allo stesso modo. Sono in molti a pensare che il neoliberismo sia stato solo una parentesi degli anni Ottanta e Novanta – positiva o negativa a seconda delle opinioni. In realtà, se è vero che questi furono i due decenni in cui la dottrina economica venne applicata nel modo più scrupoloso, non si può dire che la stagione neoliberista si sia conclusa definitivamente. Anzi, da un certo punto di vista, oggi, ne viviamo le conseguenze più drammatiche. Anche i partiti di Sinistra, con la “terza via” di Tony Blair e Bill Clinton, hanno adottato una prospettiva più indulgente verso le imprese private e antistatalista, complicata da quella che è cominciata come una tragedia e poi si è trasformata in una farsa. L’ideologia neoliberista del primato dell’individuo e del mercato sembrerebbe inconciliabile con uno stato di crisi permanente come quello in cui viviamo oggi. Eppure, è proprio la commistione di questi due aspetti ad aver creato una società profondamente divisa e classista, dove tutti sembrano accettare che l’1% più ricco del mondo detenga più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone. La “dottrina dello shock”, come la chiama Naomi Klein, è il perfetto assist per il neoliberismo: la crisi che segue un disastro è la scusa ideale per imporre politiche impopolari che avvantaggiano pochi a discapito di molti. Una visione tutt’altro che umana, ma che in molti giustificano nel nome dell’economia. “Non esiste la società. Esistono solo gli individui”, diceva Margaret Thatcher con una massima celebre e in un certo senso profetica. Oggi la dimensione collettiva è venuta sempre meno, proiettandoci in un’apparente dimensione di autosufficienza che ci impedisce non solo di creare solidarietà con gli altri, ma persino di sentirne il bisogno. Ci sentiamo sempre più soli, e lo siamo. E il paradosso è che l’insistenza sulla realizzazione individuale di cui si fregia l’ideologia neoliberista non ci ha trasformati, come promesso, in esseri liberi e di successo, ma ha finito per illuderci con la promessa che un giorno lo saremo, se ci impegneremo a sufficienza. D’altronde, nelle intenzioni di Von Hayek, la tanto celebrata “libertà individuale” è quella della classe dominante. La narrativa della positività, della felicità a tutti i costi e della meritocrazia sono funzionali a questo sistema, che ha creato una forma più sofisticata dell’alienazione, che ci ha trasformati da “soggetti d’obbedienza” a “soggetti di prestazione”, come scrive il filosofo coreano Byung-chul Han: “Con l’incremento della produttività il paradigma della regolamentazione viene rimpiazzato dal paradigma della prestazione, ossia dallo schema positivo del poter-fare. La positività del poter-fare è molto più efficace della negatività del dovere. Così, l’inconscio sociale passa dal dovere al poter-fare”. Se oggi siamo ancora qui a parlare di neoliberismo, infatti, è perché questa è diventata l’ideologia dominante del nostro tempo, nonostante da anni si parli di “fine delle ideologie” o di “società post-ideologica”. Pur presentandosi come una semplice dottrina economica in favore dell’autodeterminazione del singolo, il neoliberismo è profondamente ideologico. “L’ideologia non nasconde o distorce una realtà soggiacente, ma piuttosto è la realtà stessa che non può essere riprodotta senza mistificazione ideologica”. Di un’ideologia quindi non ci si libera tanto facilmente, a maggior ragione se, concentrati come siamo su noi stessi, non siamo nemmeno in grado di riconoscerla come tale.
(continua)

E’ sempre tempo di Coaching! 

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: riceverai una risposta oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuita

 

0

Aggiungi un commento