Politica: si vota per l’Europa. Qual’ è l’Europa che vogliamo? Un’Europa ideale e coesa come volevano i Padri fondatori. Un Europa che guarda ai giovani e alle istanze di cambiamento… È l’Europa che le destre ci raccontano come irraggiungibile…

Le destre predicano “conservazione”, condannando i popoli europei a conservarsi nell’attuale stato di disuguaglianze abissali ed esposizione indifesa al cambiamento climatico. Ma chi vuole farci credere che «non esiste alternativa» sbaglia! Soprattutto di fronte al crescente disordine internazionale, all’incertezza e all’ansia che avvertiamo per il futuro dei nostri figli, l’Unione europea è in bilico fra bene e male. Fra ‘Eutopia’, il capovolgimento della parola ‘Utopia’: che indica un mondo perfetto ma totalmente irraggiungibile. L’Eutopia, invece, è uno scenario “bello e possibile” …e la ‘distopia’. In altre parole: fra l’opportunità di seguire i principi di coesione, sviluppo armonico e pace per cui è stata creata, rinnovandoli nel XXI secolo della conoscenza digitale e delle migrazioni climatiche, oppure la tentazione ottusa di tornare alle proprie pratiche monopolistiche, belliche, coloniali e di accaparramento. Le destre denunziano la disattenzione di chi governa l’Europa alla persona umana – un paradosso che, trascura la nostra Costituzione (art.3), e insistono a chiamare “uomo” anziché persona (come ha fatto ancora nell’ultimo discorso all’adunanza dell’Estremismo nostalgico di Madrid la nostra Presidente Meloni) – ribadendo con astuzia il suo metodo dirigista, nulla affatto partecipato, contro decisioni magari giuste come il Green New Deal introdotto dall’Ue. Ma in realtà non dicono mai che le responsabilità delle crisi attuali stanno nel modo di organizzare produzione e territorio, nell’impulso monopolistico impresso dal neoliberismo al capitalismo. Predicano, invece, “conservazione”, condannando i popoli a conservarsi nell’attuale stato di disuguaglianze crescenti e di maggiore esposizione alla crescita dell’area di povertà. Nelle destre, la fusione fra pulsione autoritaria e neoliberismo non è tattica, è strategica, e colpisce duramente proprio la persona umana. Di fronte a ciò, bisogna riconoscerlo, chi da tempo governa l’Europa non sa rispondere, a questa sfida esiziale, perché, come le destre, non vuole o non sa più risalire alle cause strutturali delle ingiustizie, e perché non pratica più da tempo il dialogo sociale, non è in contatto con le aspirazioni, le sperimentazioni avanzate della società, delle sue imprese, dei poli territoriali di innovazione. Quando “scopre” dalle proteste che le proprie misure non hanno tenuto conto dell’impatto sui più vulnerabili, ferma le macchine, fa marcia indietro, come nella direttiva per la Biodiversità o per l’Abolizione dei pesticidi. Anziché chiedere più accesso aperto alla conoscenza, la sola carta per ottenere uno sviluppo giusto, invoca più grandi corporation europee. Anziché chiedere che l’Ue si indebiti sui mercati per finanziare un salto nel welfare universale europeo o per realizzare il “Cern della salute”, un’infrastruttura pubblica comune per la ricerca e sviluppo di farmaci che eviti il disastro della scorsa pandemia e prezzi impossibili delle cure future, invoca quel debito per aumentare le spese per la difesa. Nascondendo ciò che il rapporto elaborato da Enrico Letta sul Mercato unico i ricorda e insiste con franchezza, per mettere in comune la difesa in Europa, la qual cosa consentirebbe di eliminare un’inefficienza di spesa stimata nel 40 per cento. Ma dunque la difesa comune può consentire di tagliare le spese, non di accrescerle. Insomma, il blocco che ha governato l’Europa, sotto le pressioni della destra, già torna a virare verso la distopia. Eppure, come argomentato nel Forum disuguaglianze e diversità (ForumDD) in Quale Europa (Donzelli, a cura di Elena Granaglia e Gloria Riva), lo scenario eutopico è chiaro e a portata di mano. Non è scritto nelle nuvole, come vuole farci credere chi ripete a macchinetta che «non esiste alternativa». Basta studiare con rigore, apprendere dalle sperimentazioni esistenti e attingere dal dibattito del parlamento europeo. Sì, quell’istituzione è viva, ascolta i saperi della ricerca e del fare, impegna ogni europarlamentare a misurarsi con quei saperi, consente e vede realizzarsi alleanze trasversali. Nei suoi lavori si misura con i temi da cui dipende il nostro futuro, da che parte del bilico cadremo. Lo abbiamo visto quando, nonostante una rabbiosa reazione degli oligopoli del farmaco, un emendamento volto a realizzare davvero il Cern della salute ha ottenuto 156 voti e quasi 100 astensioni. Segno di un sano conflitto fra i due scenari. E che in questa drammatica crisi dei partiti contano le persone che noi porteremo in quel luogo, più di chi le presenta. Tutte le proposte, l’intero scenario ‘eutopico’, ruotano attorno a quel principio di coesione da cui partirono i Padri fondatori (Spinelli e Rossi, il documento di Ventotene): l’adattamento reciproco, la compattezza fra cittadini e cittadine d’Europa. Come scriveva Freud a Einstein nel 1932, solo l’insorgere di un’«identificazione» fra i membri di stati nazionali può impedire la guerra. L’Ue non ha senso per chi ne fa parte se si percepisce l’assenza di un impegno comune a migliorare la condizione di tutti e tutte. Vero per ogni nazione; decisivo per un’unione ibrida di nazioni. Coesione è il principio che nel 2009 ha indotto a tentare di contrastare i crescenti divari territoriali interni all’Unione, di dare a chi vive in aree marginalizzate l’opportunità di ribaltare la propria condizione anziché andarsene. A fare questo con un metodo «sensibile alle persone nei luoghi», superando contrapposizioni deleterie fra accentramento e decentramento, fra top down e bottom up e combinando saperi dei territori con saperi globali della frontiera tecnologica. Possibile. Realizzato in molti contesti. Ma lontano dalla testa di gran parte delle classi dirigenti politiche. Nel votare proviamo a giudicare anche questo. L’Europa avrà un futuro solo se saprà combattere contro le disuguaglianze. Coesione è il principio che dentro l’Europa ha condotto a sostituire la cortina di ferro con il passaggio libero delle persone, con la realizzazione di programmi transfrontalieri, con il superamento culturale dei lasciti delle guerre. Che in un luogo fascinoso e travagliato come il confine italo-sloveno ha spinto l’Europa a nominare Gorizia e Nova Gorica capitale europea della cultura 2025. E invece, sull’altro crinale del bilico, ancora una volta, sta la scelta di un ministro degli Esteri dell’Italia di prorogare ancora la sospensione degli accordi di Schengen, per fare finta di frenare flussi di migranti, che entrano comunque, e rigettare il popolo di quei territori nelle divisioni assurde e cupe del passato. È una politica vecchia che ignora i giovani: ecco perché poi non votano. L’Italia è un Paese sempre più anziano, chi ha sotto i trent’anni rappresenta una minoranza che per i partiti non fa la differenza. Eppure, si tratta di una fascia di elettorato impegnata socialmente. Peccato che le sue istanze non trovino risposte. A ogni tornata elettorale la domanda “Perché i giovani non votano?” ritorna. Ma per capire le ragioni del loro astensionismo, non basta tacciare i giovani di disinteresse verso la politica e il bene comune. Occorre invece addentrarsi nei loro percorsi, capire cosa viene offerto dalle istituzioni, cosa propongono i partiti e come le istanze di questa fascia di elettorato vengono recepite e ascoltare. La risposta più semplice e immediata, guardando i dati, è: ben poco. Il voto dei giovani, in un paese sempre più vecchio come il nostro, non è quasi mai decisivo. Sono una parte del grande bacino degli “aventi diritto”, ma una netta minoranza. I cittadini europei chiamati alle urne tra il 6 e il 9 giugno sono 358 milioni. Con l’obiettivo di avvicinare ragazze e ragazzi alle istituzioni europee, cinque paesi hanno diminuito l’età per poter esercitare il diritto (18 anni): la Grecia a 17 anni, mentre Austria, Belgio e Germania a 16. In totale sono oltre 23 milioni coloro che voteranno alle europee per la prima volta: 2,7 milioni in Italia (su un totale di poco più di 47 milioni di elettori), il terzo valore più alto, dopo Germania (5,1) e Francia (4). La prima questione da dirimere è la definizione di “giovani”, che non è univoca in tutti i paesi dell’Unione europea. In Italia, l’Istituto nazionale di statistica (Istat) considera giovani le persone dai 15 ai 34 anni. Non accade lo stesso in Germania e Francia, dove i centri di ricerca nazionali considerano l’età compresa tra i 18 e i 29 anni. Mentre, in alcuni studi, l’istituto tedesco analizza la fascia tra i 15 e i 24 anni. In un paese come il nostro, in cui l’età media è la più alta d’Europa – 47 anni, in base ai dati Eurostat del 2020 – le persone tra i 18 e i 34 anni sono 10,3 milioni, il 17,51 per cento della popolazione (Istat 2023), circa 3 milioni in meno rispetto al 2002. Il numero di laureati in Italia è molto più basso rispetto alla media europea: nel 2022, solo il 29,2 per cento dei giovani tra i 25 e i 34 anni aveva un’istruzione universitaria, contro il 42 per cento nell’Unione. E il 42,3 per cento, tra i 18 e i 29 anni, ha un’occupazione. A questi dati, si aggiunge la cifra preoccupante di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, né sono impegnati in un tirocinio: in Italia sono 3 milioni. In base ai dati di Eurostat, alcune regioni italiane spiccano nella classifica dei peggiori. Nel 2021, in Sicilia il 30,2 per cento dei giovani tra i 15 e i 24 anni non studiava né lavorava. A seguire Campania (27,7) e Calabria (27,2). Al pari, solo una regione della Bulgaria, con il 27,3. Nei Paesi Bassi e in Svezia, i Neet sono invece il 5,1 per cento. Numeri difficili da rendere organici, ma che evidenziano alcune tendenze. I giovani italiani – che per numero costituiscono una fetta importante della popolazione giovanile europea, essendo l’Italia il terzo paese più popoloso – sono più esposti al tempo vuoto e hanno un livello di istruzione più basso. Complice, tra altri elementi, la spesa pubblica per l’istruzione, che nel nostro paese ammonta al 4,1 per cento del Pil, mentre in stati come Svezia, Francia e Germania, varia tra il 7,06 e il 4,7. A questo si somma una transizione più lenta verso l’età adulta, per motivi principalmente socioeconomici. Mentre per la Germania la gioventù finisce tra i 25 e i 29 anni, in Italia dopo i trent’anni donne e uomini non hanno ancora raggiunto una stabilità, né lavorativa né personale, e per questo l’età adulta tarda ad arrivare. L’Istat, nel rapporto Bes 2023, evidenziava come per i giovani fino ai 34 anni l’ingresso nel mondo del lavoro è più incerto e precario, con lunghi tempi di stabilizzazione del percorso professionale, orari ridotti, meno posizioni qualificate e redditi penalizzati. I salari italiani sono tra i più bassi d’Europa. Insomma, il passaggio alla vita adulta, sottolinea l’Istat, è «un processo più lungo e difficile», dove precarietà e carico di lavoro possono «incidere sul livello di partecipazione sociale, politica e culturale». Non possiamo non prendere in considerazione tutti questi elementi per capire il minore coinvolgimento nella vita politica del paese. Nel 2022, secondo l’Istat, tra i giovani di 18 e 19 anni lo 0 per cento ha prestato attività gratuita per un partito politico. E il tasso di partecipazione a un comizio non supera i tre punti percentuali. Ma le attività di partecipazione alla comunità democratica di ragazzi e ragazze, su cui ha avuto effetto anche la pandemia, hanno cambiato forma, e il volontariato nel 2022 è tornato a crescere tra i giovanissimi. «Quello delle nuove generazioni è in tanti casi un contributo pratico e fattivo alla vita della propria comunità», evidenzia uno studio di Openpolis del 2023. Gli indicatori sono cambiati, e «gli under 25 sono la fascia di popolazione più coinvolta nell’associazionismo», legato a temi come l’ambiente, i diritti civili e la pace. «I giovani tra i 18 e i 19 anni sono la classe anagrafica più attiva nell’associazionismo per i diritti e la cura dell’ambiente», scrive Openpolis. È il 2,9 per cento, mentre nessuna fascia di età oltre i 25 anni supera il 2 per cento. Anche un recente report di Save the Children mostra come un giovane su due (tra i 14 e i 19 anni) abbia svolto attività di partecipazione civica e politica. Mentre tra i 20 e i 24 anni «i valori salgono al 63,3 per cento». C’è quindi un allontanamento dalle forme tradizionali di politica, ma questi dati mostrano tutt’altro che disinteresse nella collettività. Se la sfiducia nei partiti è molto alta, per tutte le fasce di età, sono altre le organizzazioni che nei fatti avvicinano i giovani alla politica… I partiti politici sembrano quindi non ascoltare i giovani, e questi ultimi sembrano avere sempre meno fiducia nelle istituzioni. Il dato emerge anche da un’indagine del Consiglio nazionale giovani e dell’Istituto Piepoli. Per gli under 35 i temi affrontati dai partiti nella campagna elettorale non rispecchiano le proprie preoccupazioni e priorità, e solo l’8 per cento dei giovani si dice soddisfatto del dibattito politico sulle europee. L’83 per cento degli under 35 – si legge in uno studio condotto da Scomodo e Campo ricerca – pensa che i leader italiani non rappresentino i giovani all’interno dell’Ue. Di conseguenza, alle elezioni politiche del 2022 l’astensionismo giovanile è stato alto (42,7 per cento). Così, per le prossime europee dell’8 e 9 giugno solo il 47 per cento si è detto propenso a votare. Ma è una percentuale, sottolinea il Cng, che supera la prospettiva di voto degli over 54 e che conferma una tendenza del 2019, quando l’aumento dell’affluenza alle urne è stato determinato dalla partecipazione delle giovani generazioni in tutta l’Unione europea. I giovani continuano ad avere forti aspettative nei confronti dell’Unione e chiedono che la politica si occupi di salute, pace e soprattutto di ambiente, che parli di lavoro e occupazione, di scuola, università e di diritti. In un sondaggio Ipsos del 2021, è emerso che i ragazzi italiani sono molto preoccupati per il cambiamento climatico, più dei coetanei europei, e «sono motivati a far partire il cambiamento». Ansia, depressione e isolamento sociale. Una campagna per raccontare il disagio giovanile. Ma, dopo la riduzione del numero dei parlamentari e la modifica del corpo elettorale, dalle elezioni del 2022 è derivato un parlamento sempre più vecchio, invertendo la tendenza positiva degli ultimi anni: deputati e senatori hanno in media 51,4 anni, mentre la presenza di donne e giovani è diminuita rispetto alla legislatura precedente. 62 deputati hanno meno di 40 anni. Il risultato si vede una compagine governativa con la testa rivolta all’indietro con un piglio autoritario che non sopporta il dissenso e la protesta, che tratta i giovani cotto l’aspetto sicuritario e comprimendo i diritti civili e ogni anelito di cambiamento delle politiche green… una politica vecchia, incapace di ascoltare le richieste dei ragazzi e delle ragazze e capace di rispondere alle contestazioni solo con la repressione…

E’ sempre tempo di Coaching! 

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: riceverai una risposta oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuita

 

0

Aggiungi un commento