Politica: una crescita senza benessere. 57settesimo rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Italiani un popolo di ‘sonnambuli’, una società divenuta cieca dinanzi ai cattivi presagi. Tanti i temi che suscitano preoccupazione: l’occupazione, la crescita economica, la crisi demografica, il ritorno della guerra, le incognite sul welfare, ma la maggior parte degli italiani preferisce ignorarli. Crolla l’inflazione a novembre, la nostra economia non riparte……

Le priorità per lo sviluppo del paese dovrebbero essere gli investimenti in ricerca, innovazione, scuola e cultura. Ma la manovra finanziaria appena presentata dall’esecutivo trascura tutte queste voci. Politici ed economisti fanno un gran parlare di crescita, soprattutto in questi giorni di dibattito sulla manovra presentata dal governo al Parlamento per essere approvata entro la fine dell’anno. La crescita economica dipende dalla produttività industriale, che a sua volta è legata al livello del capitale umano, dagli investimenti in innovazione tecnologica, dalla modernizzazione sociale. “Naturalmente si tratta di conquiste notevoli, spesso cruciali, ma il loro valore deve essere fatto dipendere dagli effetti che producono sulle possibilità di vita e sulle libertà delle persone”, come ci ha insegnato Amartya Sen. Ormai da tempo questa idea di Sen, premio Nobel 1998 per l’economia, suggerisce di porsi in modo nuovo il tema della crescita economica per contestare l’assolutizzazione del benessere materiale proposto in modo più o meno esplicito dalla teoria economica classica. Quindi, se lo sviluppo non può essere identificato solo con la crescita di beni e servizi che consumiamo, né con il tasso di industrializzazione di un paese, il Pil e la sua crescita non sono indicatori in grado di misurare da soli il grado di benessere degli abitanti. Perché l’obiettivo principale delle misure economiche deve essere invece il miglioramento del benessere di una popolazione anche, ma non solo, con la produzione di ricchezza materiale. Per realizzare tale obiettivo occorre allora investire nella scuola, nella formazione dei giovani, nella ricerca, nell’innovazione, nella cultura per aumentare innanzitutto il livello del capitale umano che resta il fattore più importante per la crescita. Se questi investimenti sono la priorità, bisogna allora eliminare le spese inutili del bilancio di uno stato con una efficace spending review ed evitare perdite di gettito fiscale con i condoni. Va data priorità agli investimenti in opere pubbliche rimandando quelli non urgenti. Occorrono poi norme rigide sulla concorrenza per evitare situazioni di privilegio. Si devono colpire i conflitti di interesse. Se una tale politica porta a una reale crescita della ricchezza e del benessere di un paese, ogni cittadino sarà libero di costruire la sua vita in base ai propri valori e ideali. Perché, ancora secondo Amartya Sen, lo sviluppo è libertà. Dopo un anno di governo della destra, non pare proprio che questo concetto di crescita sia mai stato considerato dai membri dell’esecutivo, che appaiono spesso incapaci di studiare a fondo i dossier. Anzi, si sono difesi privilegi come quelli di balneari e tassisti, si è disegnata una riforma fiscale che aumenta le disuguaglianze sociali privilegiando, ad esempio, i lavoratori autonomi, le rendite finanziarie e le rendite immobiliari, si sono tagliati fondi per la sanità, per gli asili nido, per la cultura, per la scuola, per la ricerca, per la prevenzione della violenza sulle donne, per le disabilità, solo per citare i capitoli più importanti. Si è data la precedenza al ponte sullo Stretto, opera certamente non urgente. Senza dimenticare il mancato rispetto dei diritti civili e sociali. E gli italiani che sono sempre più anziani, risultano rassegnati e ben 8 italiani su 10 temono un declino del Paese inarrestabile. Il primo punto che viene fuori, che è poi il filo rosso che accompagna l’intera indagine è quello che vede gli italiani ciechi dinanzi ai presagi. A partire dalla crisi demografica: nel 2050 avremo quasi 8 milioni di persone in età lavorativa in meno. Siamo intrappolati nel mercato dell’emotività: per l’80% degli italiani il Paese è in declino, per il 69% più danni che benefici dalla globalizzazione, e adesso il 60% ha paura che scoppierà una guerra mondiale e secondo il 50% non saremo in grado di difenderci militarmente. Ancora: ripiegati nel tempo dei desideri minori: non più alla conquista dell’agiatezza, ma alla ricerca di uno spicchio di benessere quotidiano. L’economia dopo la fine dell’espansione monetaria? Record di occupati, ma crescita in rallentamento. Intanto monta l’onda delle rivendicazioni dei diritti civili individuali e delle nuove famiglie (è favorevole all’eutanasia il 74% dei cittadini). E nella siderale incomunicabilità generazionale va in scena il dissenso senza conflitto dei giovani, esuli in fuga (sono più di 36.000 gli expat di 18-34 anni solo nell’ultimo anno). Il segno negativo davanti alla variazione del Pil nel secondo trimestre dell’anno (-0,4%) e poi la stagnazione dell’economia registrata nel terzo trimestre (0,0%) certificano una nuova fase di incertezza, che peraltro ancora non incorpora gli effetti del conflitto in Medio Oriente. Tra il primo e il secondo trimestre di quest’anno si sono ridotti dell’1,7% gli investimenti fissi lordi (in particolare nelle costruzioni: -3,3%). Molte delle attese di rafforzamento del sistema produttivo si sono riversate sulle potenzialità del Pnrr, che secondo le stime raggiungerà alla fine del 2023 una percentuale di completamento pari al 50%, rispetto a una tabella di marcia che prevedeva il 74%. Il Censis sottolinea che siamo passati rapidamente dagli allarmi sugli elevati tassi di disoccupazione al record di occupati, mentre il sistema produttivo lamenta sempre più frequentemente la carenza di manodopera e di figure professionali. La fase espansiva dell’occupazione, avviata già nel 2021, si è consolidata nel primo semestre di quest’anno. Tra il 2021 e il 2022 gli occupati sono aumentati del 2,4% e nei primi sei mesi dell’anno la crescita rispetto allo stesso periodo del 2022 è stata del 2,0%. Sono 23.449.000 gli occupati al primo semestre: il dato più elevato di sempre. Tuttavia, rispetto ai primi tre mesi di quest’anno, si sono ridotte le ore lavorate in tutti i settori produttivi: -3,0% nell’agricoltura, -1,1% nell’industria, -1,9% nelle costruzioni, -0,5% se si considera l’intera economia. L’Italia rimane comunque all’ultimo posto nell’Unione europea per tasso di occupazione: il 60,1%, aumentato di 2 punti percentuali tra il 2020 e il 2022, ma ancora al di sotto del dato medio europeo (69,8%) di quasi 10 punti. Se nel nostro Paese si raggiungesse il dato medio europeo, avremmo circa 3,6 milioni di occupati in più. L’Italia continua a essere un Paese di emigrazione (sono più di 5,9 milioni gli italiani attualmente residenti all’estero, pari al 10,1% dei residenti in Italia), più che di immigrazione (sono 5 milioni gli stranieri residenti nel nostro Paese, pari all’8,6% dei residenti in Italia). Gli italiani che si sono stabiliti all’estero sono aumentati del 36,7% negli ultimi dieci anni (ovvero quasi 1,6 milioni in più). A caratterizzare i flussi centrifughi più recenti è l’aumento significativo della componente giovanile. Nell’ultimo anno gli espatriati sono stati 82.014, di cui il 44,0% tra 18 e 34 anni (36.125 giovani). Con i minori al seguito delle loro famiglie (13.447) si sfiorano le 50.000 unità: il 60,4% di tutti gli espatriati nell’ultimo anno. Anche il peso dei laureati sugli espatriati 25-34enni è aumentato significativamente, passando dal 33,3% del 2018 al 45,7% del 2021. Un drenaggio di competenze che non è inquadrabile nello scenario di per sé positivo e auspicabile della circolazione dei talenti, considerato che il saldo migratorio dei laureati appare costantemente negativo per l’Italia. Nel mercato dell’emotività: trovano terreno fertile le paure amplificate. Nell’ipertrofia emotiva in cui la società italiana si è inabissata, le argomentazioni ragionevoli possono essere capovolte da continue scosse emozionali. Tutto è emergenza: quindi, nessuna lo è veramente. Così trovano terreno fertile paure amplificate, fughe millenaristiche, spasmi apocalittici, l’improbabile e il verosimile. L’84,0% degli italiani è impaurito dal clima «impazzito», il 73,4% teme che i problemi strutturali irrisolti del nostro Paese provocheranno nei prossimi anni una crisi economica e sociale molto grave con povertà diffusa e violenza, per il 73,0% gli sconvolgimenti globali sottoporranno l’Italia alla pressione di flussi migratori sempre più intensi e non saremo in grado di gestire l’arrivo di milioni di persone in fuga dalle guerre o per effetto del cambiamento climatico, il 53,1% ha paura che il colossale debito pubblico provocherà il collasso finanziario dello Stato. Il ritorno della guerra ha suscitato nuovi allarmi: il 59,9% degli italiani ha paura che scoppierà un conflitto mondiale che coinvolgerà anche l’Italia, per il 59,2% il nostro Paese non è in grado di proteggersi da attacchi terroristici di stampo jihadista, il 49,9% è convinto che l’Italia non sarebbe capace di difendersi militarmente se aggredita da un Paese nemico, per il 38,2% nella società sta crescendo l’avversione verso gli ebrei. Anche il welfare del futuro instilla nell’immaginario collettivo grandi preoccupazioni: il 73,8% degli italiani ha paura che negli anni a venire non ci sarà un numero sufficiente di lavoratori per pagare le pensioni e il 69,2% pensa che non tutti potranno curarsi, perché la sanità pubblica non riuscirà a garantire prestazioni adeguate. Sono scenari ipotetici che paralizzano invece di mobilitare risorse per la ricerca di soluzioni efficaci e generano l’inerzia dei sonnambuli dinanzi alla complessità delle sfide che la società contemporanea deve affrontare. Intanto: aumentano le pressioni sulla Bce per allentare la stretta monetaria che frena la crescita. Il neogovernatore di Bankitalia, Fabio Panetta: «Vanno evitati inutili danni all’attività economica», Intanto gli investitori scommettono su un ribasso dei tassi da parte delle banche centrali già nei primi mesi dell’anno prossimo e spingono le Borse al rialzo. Fabio Panetta, da un mese esatto al comando della Banca d’Italia, saluta il calo dell’inflazione come «una buona notizia», che apre nuove opportunità di crescita per l’area dell’euro e quindi anche per l’Italia. Bastano queste parole, pronunciate qualche giorno fa da Panetta al convegno organizzato da Iccrea (banche di credito cooperativo) nella prima uscita ufficiale da governatore, per capire che il clima sta cambiando, che dopo due anni di crisi e tormenti, la crescita dei prezzi sembra aver invertito con decisione la rotta. E allora «bisogna evitare inutili danni per l’attività economica, visto che, sostiene Panetta, la trasmissione degli impulsi monetari alle condizioni di finanziamento si sta rivelando più forte del previsto». In altre parole, l’aumento del costo del denaro ha già avuto effetti consistenti per raffreddare l’inflazione e quindi non è il caso di spingere troppo sul pedale dei tassi perché c’è il rischio concreto di danneggiare l’economia. Il messaggio è chiaro. Così come i destinatari. E cioè i falchi che nell’esecutivo della Bce vedono rischi di nuove fiammate dei prezzi e premono per prolungare ancora la stretta monetaria. Il governatore non si nasconde che il motore produttivo dell’Italia si trova in una fase di “ristagno”, come confermano gli ultimi dati del Pil, che tra marzo e settembre ha smesso di crescere. Il rilancio passa da uno stimolo alla produttività, che nel nostro paese resta inferiore a quella dei maggiori partner europei, ha argomentato Panetta, in quello che suona come un chiaro segnale diretto al governo. Intanto però, oltre al nuovo aumento del tasso di occupazione (a ottobre al record del 61,8 per cento) Palazzo Chigi accoglie con prevedibile soddisfazione anche la notizia di un ulteriore calo dell’inflazione che nel mese di novembre, secondo le stime preliminari dell’Istat, è scesa allo 0,8 per cento su base annua dall’1,7 per cento di ottobre. Siamo quindi ormai molto lontani dai numeri di un anno fa quando i prezzi crescevano a doppia cifra, intorno al 10 per cento. Il crollo è dovuto in primo luogo alla picchiata delle tariffe dell’energia rispetto a novembre del 2022 (meno 31,7 per cento). Se si escludono dal calcolo i beni energetici e gli alimentari freschi, la cosiddetta inflazione di fondo fa comunque segnare un arretramento su base annua del 3,6 per cento, contro il 4,2 per cento registrato a ottobre. Il costo della vita rallenta anche in Europa. Nell’area dell’euro, ha comunicato ieri Eurostat, siamo al 2,4 per cento, mentre il mese precedente l’incremento dei prezzi, misurato sempre nell’arco dei dodici mesi, era stato del 2,9 per cento. Anche qui, al netto di energia e alimentari non lavorati, l’inflazione resta comunque più sostenuta, 4,3 per cento, ma comunque in calo rispetto al 4,9 per cento di ottobre. Va comunque segnalato che l’Italia è il Paese che nel mese appena trascorso ha fatto segnare l’incremento dei prezzi più basso nell’area dell’euro, alla pari del Belgio. Un dato a cui di certo contribuisce anche un maggiore raffreddamento dell’economia, che appiattisce più che altrove la domanda. I tassi d’interesse elevati pesano sulle aziende, costrette a frenare gli investimenti e anche i consumi privati rallentano. Uno scenario preoccupante, che ha come principale conseguenza l’aumento delle pressioni sulle autorità monetarie perché allentino la stretta monetaria. Da Francoforte, la presidente della Bce Christine Lagarde ripete da settimane che i tassi resteranno elevati «per il tempo che sarà necessario», una frase che si presta alle più diverse interpretazioni. Ultimamente però sembra prevalere la scuola di pensiero di chi ritiene che l’attesa di un primo calo del costo del denaro in Europa non potrà prolungarsi oltre la metà del prossimo anno. E le prospettive potrebbero essere ancora migliori negli Stati Uniti dove molti analisti ritengono che la Fed potrebbe dare una prima sforbiciata ai tassi già in aprile. Questa è di sicuro l’evoluzione su cui scommettono gli investitori internazionali, che nell’ultimo mese hanno spinto al rialzo le Borse (Milano è addirittura ai massimi degli ultimi 15 anni) con fiumi di denaro che si riversano anche sui titoli obbligazionari, nella convinzione che i tassi non potranno salire ancora. Si spiega anche così la forte riduzione dei Btp, che ancora a metà ottobre rendevano intorno al cinque per cento nella scadenza a dieci anni, mentre ora viaggiano sul 4,2 per cento. In questo coro di aspettative positive le uniche note non proprio allineate sono quelle dei grandi organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale e l’Ocse. Quest’ultimo lo scorso mercoledì ha pubblicato il suo periodico rapporto sull’economia mondiale in cui ammonisce che non sono esclusi nel breve termine nuovi segnali al rialzo dell’inflazione. Di conseguenza, le banche centrali potrebbero essere costrette a mantenere tassi elevati più a lungo del previsto. Come dire che i mercati perderebbero la loro scommessa e l’economia globale sarebbe di nuovo nei guai. Con tutte le conseguenze del caso anche per l’Italia. Questa politica non può che aumentare le disuguaglianze e impedire un reale sviluppo, cioè una solida crescita, peggiorando così il benessere dei cittadini italiani. Se questo governo durerà cinque anni, alla fine ci troveremo con un’economia stagnante, senza crescita, un rapporto debito/Pil peggiore di quello di oggi, una manifattura senza innovazione, quindi un malessere al posto del benessere. alle dichiarazioni e azioni di tutti i membri del governo, compresa la Premier, temiamo che tra quattro anni questo sarà lo scenario più probabile. Resta un’unica speranza ovvero la presa di coscienza dell’elettorato (tutto intero, anche quel circa 40% che si è ormai defilato dalle urne con l’astensione dal voto) prima delle prossime elezioni politiche… o meglio già nelle prossime elezioni amministrative e europee, presupposto necessario perché le elezioni politiche italiane siano significative di una rinnovata fiducia degli italiani nelle possibilità della Politica di rinnovare se stessa e soprattutto il Paese nonché le condizioni materiali di vita di un popolo che è diventato “sonnambulo” grazie anche a una politica sempre più foriera di paure e guai…

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